I Parp-inibitori, in uso nel trattamento dei tumori all'ovaio e al seno, efficaci anche nella cura dei tumori della prostata resistenti alla terapia ormonale
Il tumore della prostata rappresenta la più frequente neoplasia tra gli uomini adulti. Nonostante i recenti progressi (oggi il tasso di sopravvivenza a 5 anni è del 92 per cento), in una quota di pazienti, dopo l'iniziale risposta alla terapia chirurgica e di deprivazione androgenica (nota anche come ormonoterapia), la malattia evolve in una forma più aggressiva. Che, poco alla volta, finisce per non rispondere ai farmaci. Questa evoluzione, nel tempo, compromette le possibilità di convivenza con il cancro. Da qui la necessità di individuare nuove opzioni terapeutiche, la prima delle quali potrebbe essere rappresentata dal ricorso ai Parp inibitori, già in uso nei tumori dell’ovaio e della mammella. La notizia giunge dallo studio PROFound, pubblicato sul New England Journal of Medicine. Un lavoro che conferma come la stagione dello screening genetico sia alle porte, anche per la più diffusa forma di cancro dell’apparato urogenitale maschile.
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I PARP-INIBITORI NEL TRATTAMENTO DEI TUMORI DELLA PROSTATA
Nella sperimentazione di fase 3, i ricercatori dell’Institute of Cancer Research e del Royal Marsden Hospital di Londra hanno coinvolto 389 pazienti con un cancro della prostata avanzato e resistente ai trattamenti ormonali. Le molecole in questione sono fondamentalmente due: l’enzalutamide e l’abiraterone. Nel momento in cui si manifesta la resistenza a uno di questi farmaci (nell’arco di 8-10 mesi), i protocolli prevendono che si avvii il trattamento di seconda linea (con l’altro principio attivo) o si dia spazio alla chemioterapia (nei tumori della prostata utilizzata quasi come ultima spiaggia). In questo caso, invece, i ricercatori hanno diviso i pazienti in due gruppi: per uno era prevista la cura (ormonale) con un antiandrogeno, per l’altro quello con olaparib, una molecola della classe dei Parp-inibitori utilizzata nelle donne con un tumore al seno o all’ovaio provocati da una mutazione dei geni Brca 1 e 2. I pazienti inseriti in questo secondo gruppo (245) hanno avuto modo di trascorrere un periodo più lungo prima di osservare una ripresa della progressione della malattia (mediana di 7.4 mesi), rispetto agli altri (142) trattati con l'ormonoterapia (3.6 mesi). Un dato che ha finito per ripercuotersi anche sui tempi di sopravvivenza: 18.5 rispetto a 15.1 mesi, considerando la mediana dei valori dall'inizio della terapia di seconda linea.
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COME FUNZIONANO I PARP-INIBITORI
I Parp-inibitori (l’acronimo deriva da poli-ADP ribosio polimerasi) sono dei farmaci mirati a colpire soltanto la malattia e non l’intero organo (o ghiandola, in questo caso). La loro azione consiste nell’annullamento dei meccanismi di riparazione del Dna che si registra nelle cellule neoplastiche, con la conseguente morte (apoptosi) soltanto di quelle malate. Tra gli effetti collaterali segnalati dalle donne che già li assumono, vi sono l’anemia (penuria di globuli rossi), la neutropenia (carenza di globuli bianchi) e l’astenia. Condizioni che, trattandosi di una terapia di lunga durata, potrebbero risultare anche fastidiose per i pazienti. Ma secondo gli esperti, si tratta di conseguenze comunque più tollerabili rispetto a quelle indotte dalla chemioterapia. Detto ciò, non è da escludere un approccio combinato: con l’olaparib (non ancora somministrabile in Italia per il tumore della prostata) che potrebbe essere prescritto fin da subito assieme alla terapia ormonale o alla chemioterapia.
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PER LA PROSTATA SI AVVICINA L’ERA DELLA MEDICINA DI PRECISIONE
Come nel caso delle donne con un tumore al seno o all'ovaio, il ricorso a un Parp-inibitore nel trattamento del tumore della prostata potrà essere riservato ai pazienti portatori di una o più mutazioni dei geni Brca e Atm, responsabili della maggiore aggressività della malattia. Detto ciò, lo studio delle sue caratteristiche molecolari potrebbe nel tempo allargare la platea dei possibili beneficiari. Al di là di queste considerazioni, però, l’aspetto che emerge dallo studio PROfound è il seguente: la medicina di precisione è alle porte, anche per la cura del tumore della prostata. «Tutti i pazienti che si sottopongono all'ormonoterapia, nel tempo, sviluppano una resistenza che ne vanifica l’efficacia - afferma Emanuele Naglieri, responsabile del gruppo uroginecologico dell’Istituto Tumori Giovanni Paolo II di Bari -. Le conclusioni di questo lavoro offrono pertanto innanzitutto una speranza in più agli uomini che scoprono subito di avere una malattia metastatica e a coloro che la vedono evolversi a distanza di anni dall’intervento o dalla fine della radioterapia». Detto ciò, rimane da chiarire quanto i Parp-inibitori siano in grado di prolungare la sopravvivenza. «Lo studio ha evidenziato un vantaggio di poco superiore a tre mesi, rispetto ai pazienti trattati con la terapia di deprivazione androgenica. Ma ci sarà bisogno di un follow-up più lungo, oltre che di ulteriori ricerche, per consolidare questi dati».
L’IMPORTANZA DELLO SCREENING GENETICO
Per riconoscere quali pazienti possano beneficiare del ricorso a olaparib - i ricercatori stimano l’approvazione da parte dell’Agenzia Europea per i Medicinali (Ema) entro i prossimi 12 mesi, dopodiché servirà l'accordo sulla rimborsabilità tra l'azienda produttrice e l'Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa) - sarà necessario identificare i portatori delle mutazioni genetiche citate. Queste, secondo i ricercatori inglesi, potrebbero essere presenti in quasi un terzo degli uomini con un tumore della prostata. «Finora lo studio del profilo genetico non è mai stato effettuato, in questi pazienti - aggiunge l'oncologo -. Per poter somministrare i Parp-inibitori, però, diventerà necessario». Oltre a permettere di cucire la terapia su misura dei pazienti, l'allargamento dello screening genetico offrirebbe ai parenti più stretti l’opportunità di sottoporsi a dei percorsi di diagnosi precoce. «Nel caso in cui anche un figlio o un fratello della persona malata avessero la mutazione di uno dei geni Brca o di Atm, le ipotesi sarebbero due: la sorveglianza attiva o la chirurgia profilattica - precisa Naglieri -. Nel primo caso, un’ipotesi potrebbe essere rappresentata dal dosaggio dell’antigene prostatico specifico (Psa) ogni tre mesi e da una visita urologica annuale. L'asportazione della prostata eliminerebbe ogni preoccupazione. Ma come quando si ha di fronte una donna chiamata a valutare l'intervento preventivo al seno o alle ovaie, occorre considerare l’età di un uomo e i possibili effetti collaterali dell’intervento».
Fabio Di Todaro
Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).