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Oncologia
Fabio Di Todaro
pubblicato il 10-02-2015

Tumore della prostata, una nuova arma dal testosterone?



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L’ipotesi arriva da uno studio statunitense: l’ormone potrebbe rappresentare un antidoto per i pazienti colpiti dalle forme avanzate della malattia

Tumore della prostata, una nuova arma dal testosterone?

Per molti uomini è la chiave della virilità. Per gli oncologi è innanzitutto il bersaglio da colpire per arrestare la crescita del tumore della prostata, il più diffuso nella popolazione maschile: 43.380 le diagnosi effettuate in Italia nel 2013. Protagonista il testosterone, considerato la «benzina» per lo sviluppo di una neoplasia che cresce in diffusione soprattutto negli over 60.

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LA TERAPIA ORMONALE

Negli ultimi settant’anni gli specialisti si sono sempre trovati d’accordo. Il «blocco» della sintesi dell’ormone sessuale maschile e  l’interazione tra il suo recettore e i ligandi «sostitutivi» (gli antiandrogeni) sono - con la chirurgia e la radioterapia - le strategie di intervento più efficaci contro il tumore. La cosiddetta deprivazione androgenica è una delle strategie difensive messe in atto, anche in maniera esclusiva, quando la malattia è troppo estesa per essere curata in sala operatoria o presenta già delle metastasi.

Ma non di rado, soprattutto dopo un lungo trattamento, alcune cellule tumorali sviluppano una resistenza ai farmaci: così la crescita del tumore può riprendere incontrollata.

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LA RISPOSTA NEL TESTOSTERONE?

Chemioterapici e farmaci ormonali di nuova generazione sono la prima arma messa in campo nei casi in cui il tumore della prostata non risponde più ai trattamenti mirati a inibire la sintesi del testosterone.

Ma uno studio pilota, i cui risultati sono stati pubblicati su Science Translational Medicine, svela una prospettiva nuova e intrigante.

Da bersaglio ad antidoto: e se fosse proprio una corposa iniezione di testosterone a rallentare la progressione della neoplasia? Ad avanzare l’ipotesi Michael Schweizer, oncologo del Sidney Kimmel Comprehensive Cancer Center di Baltimora e prima firma della pubblicazione.

Il suo gruppo di ricerca ha testato questo approccio (definito terapia androginica bipolare) in 16 uomini privi di sintomi i cui tumori della prostata - in buona parte già con metastasi - erano diventati resistenti alle terapie androgeno-soppressive.

Tutti hanno continuato a ricevere gli stessi farmaci, ma ogni 28 giorni è stata loro somministrata anche una dose di testosterone: abbinata, per i primi tre mesi, a una terapia con etoposide, un antitumorale poco efficace contro il carcinoma della prostata, ma in grado di inibire un enzima implicato nel danno al Dna provocato dalle dosi massicce di ormone.

Per valutare i progressi ottenuti, i ricercatori hanno misurato la quantità di antigene prostatico specifico (Psa) nel sangue, un indicatore della crescita del cancro alla prostata. Se in sette pazienti s’è osservato un aumento di questo valore, in altrettanti il calo è stato significativo.

La risposta ha trovato conforto nella tac addominale eseguita dopo tre mesi su dieci pazienti per valutare le dimensioni delle metastasi linfonodali: in quattro casi risultavano rimpicciolite.

I COMMENTI

Col tempo, tuttavia, i vantaggi della somministrazione di testosterone si sono attenuati. I livelli di Psa hanno ripreso a salire: segno di una nuova proliferazione tumorale.

Per dirla con le parole dell’oncologo Christopher Logothetis, responsabile della divisione di oncologia medica genitourinaria dell’Md Anderson Cancer Center di Houston, «i dati clinici sono intriganti, anche se i colleghi avrebbero dovuto effettuare delle biopsie per determinare come il testosterone possa aver influenzato la crescita dei tumori». Può dunque avere senso immaginare una simile prospettiva terapeutica per i pazienti che presentano già delle metastasi?

«L’ipotesi è interessante perché, soprattutto attraverso i primi studi condotti in vitro, svela come si possa bloccare il recettore androgenico con dosi massicce di testosterone - sintetizza Francesco Boccardo, ordinario di oncologia medica all’Università di Genova e direttore della clinica di oncologia medica dell’Azienda ospedaliero-universitaria San Martino-IST -. Ma l’impiego di questa strategia di trattamento non è ancora proponibile nella pratica clinica: ci sono diversi effetti collaterali e i risultati ottenuti devono essere approfonditi attraverso ulteriori ricerche.

Al momento possiamo contare su diverse opportunità di cura per i pazienti refrattari alla terapia androgeno-soppressiva, partendo da nuovi farmaci ormonali come l’abiraterone acetato e l’enzalutamide».

Fabio Di Todaro
Fabio Di Todaro

Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).


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