La ripresa dopo aver affrontato un tumore in adolescenza non è così semplice. L'importanza di «seguire» i ragazzi anche anni dopo la fine delle terapie
La vita, dopo una lunga malattia, non è quasi mai come prima. Lo si inizia a vedere oggi, tra coloro che hanno dovuto fare i conti con il Covid-19. Lo si sa da più tempo, invece, per quel che riguarda i tumori. Il cancro lascia un segno su tutti i pazienti: tanto più marcato quanto più precoce è l’appuntamento con la diagnosi. È inevitabile che sia così. Più si è giovani, più si è portati a sentirsi «immuni» dalle malattie. E prima si scopre di dover fare i conti con un tumore, maggiore è la prospettiva di vita che ci si ritrova a dover vivere con i segni lasciati da questa esperienza. Un target molto specifico è rappresentato dagli adolescenti, 800 dei quali ogni anno (in Italia) scoprono di dover fare i conti con quella che, fino a poco prima, consideravano una malattia che avrebbe potutto colpire soltanto nonni. O, nei casi più gravi, gli zii e i genitori.
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AMMALARSI DI CANCRO IN ADOLESCENZA
Non sempre è così, invece. I numeri sono contenuti e le prospettive di guarigione migliorati rispetto al passato. Detto ciò, quando il cancro fa capolino nella vita di un adolescente, è un «evento» unico rispetto a quello che riguarda i bambini e gli adulti, come racconta Andrea Ferrari nel libro «Non c’è un perché - Ammalarsi di tumore in adolescenza». Differenze che riguardano l’aspetto clinico, da cui l’impegno di Fondazione Umberto Veronesi attraverso il progetto Gold for Kids. Ma anche la gestione psicologica del malato. Di fronte agli specialisti si pongono pazienti con bisogni speciali: spaventati dalla malattia, ma desiderosi di continuare a guardare oltre. Di pensare alla loro crescita, all’avanzamento degli studi, alle amicizie da coltivare, ai primi approcci con la sessualità. Le famiglie che hanno vissuto questa esperienza raccontano che trovare un equilibrio - in una fase in cui i ragazzi iniziavano ad acquisire indipendenza dai propri genitori - non è sempre semplice. Ma il desiderio comune di superare la malattia è il collante che, nei momenti più difficili, aiuta a superare tutte le difficoltà.
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LE TESTIMONIANZE DEI RAGAZZI
Una volta finite le cure, poi, ha inizio un nuova fase. Un percorso nel complesso più agevole rispetto alla fase acuta della malattia. Ma i segni della malattia rimangono, anche a distanza di tempo. «Nei mesi e nei primi anni successivi alla diagnosi, si è più sereni e concentrati sulla necessità di recuperare il terreno perduto - dichiara Alessandro D'Orazio, 24 anni: colpito nel 2007 da una leucemia mieloide acuta, ripresentatasi poi nel 2009 -. Con il tempo, però, la malattia si riaffaccia nella mente sotto forma di flashback e richiede un'elaborazione più profonda. Ritengo che questa esperienza mi abbia fortificato, soprattutto perché vissuta in una fase cruciale del percorso di crescita. E, oggi che è un ricordo, mi porta a voler restituire tutto: a chi si è preso cura di me e a chi sta affrontando il mio stesso percorso». Da qui l'idea di creare un'associazione per sostenere i giovani pazienti oncoematologici (4You). Al suo fianco c'è Filippo Cesi, 25 anni, quasi fisioterapista. Per lui, la metafora più efficace con cui riassumere l'esperienza è quella dei colori che gli hanno fatto compagnia: il nero (la diagnosi), il verde (la speranza) e il giallo (la luce ritrovata). «Le cicatrici ci sono, anche se spesso siamo bravi a nasconderle - racconta il ragazzo, che a 17 anni scoprì di avere una sindrome mielodisplastica -. Metabolizzo continuamente quanto mi è accaduto. Con il tempo, ho capito che bisogna coltivare la vita anche durante le cure. Lo stesso occorre fare quando si è accanto a una persona ammalata: donare il possibile e sforzarsi sempre di comprendere il dolore altrui».
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COSA RIMANE DOPO LA MALATTIA
Molti, tra coloro che osservano a distanza un ragazzo ammalatosi di cancro, tirano un sospiro di sollievo alla fine delle cure. Ma il ritorno alla routine non è una discesa fiorita, come testimoniano le parole di Alessandro e Filippo. «All'inizio prevalgono la serenità e la tranquillità, perché il primo pensiero vola allo scenario peggiore, considerato ormai alle spalle - afferma Domitilla Secco, psicoterapeuta nel reparto di oncoematologia pediatrica dell'ospedale Bambin Gesù di Roma -. Poi, poco alla volta, si capisce che la ripresa delle attività interrotte o rallentate dalla malattia non è così agevole. Questi ragazzi hanno bisogno di riscoprirsi, di capire com'è cambiato il loro corpo, cosa sono in grado di fare e quali risultati possono ottenere». Non si è gli adolescenti che si era prima della diagnosi. Né si è gli stessi del periodo di cura. In questa fase occorre trovare un nuovo equilibrio, «perché il cancro ha una risonanza emotiva che porta a dover rifarci i conti, prima o poi», aggiunge l'esperta, intervenuta alla tappa di Roma di #Fattivedere, il progetto con cui Fondazione Umberto Veronesi affronta il tema della malattia oncologica degli adolescenti con gli studenti delle scuole secondarie di secondo grado. «Se un ex paziente ce lo chiede, dobbiamo ascoltarlo anche a distanza di anni dalla fine delle cure».
L'IMPORTANZA DI RIMANERE SOTTO CONTROLLO
L'eredità della malattia può andare anche oltre la sfera psicologica. «I ragazzi che hanno superato un tumore vanno seguiti nel tempo: da noi finché è possibile, dopodiché dagli specialisti dell'età adulta», spiega Giuseppe Maria Milano, oncoematologo pediatra del Bambin Gesù. Come svela un lavoro pubblicato sulla rivista The Lancet Oncology, oltre ad aumentare il rischio di insorgenza di una seconda neoplasia, le cure oncologiche possono determinare effetti collaterali a carico dell'apparato circolatorio, respiratorio e del sistema endocrino. «Con l'aumento dei tassi di sopravvivenza, oggi registriamo anche gli effetti collaterali a lungo termine delle terapie - conclude lo specialista -. Non occorre vivere con l'ansia che qualcosa possa accadere, ma essere consapevoli che alcune conseguenze dei trattamenti possono manifestarsi a distanza di molti anni dalla fine del percorso di cura».
Fabio Di Todaro
Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).