Dopo una diagnosi di tumore non si torna più come prima. Studi specifici sul “disordine” psico-fisico che resta. Ora che si moltiplicano i "lungosopravviventi”, l’idea di una nuova materia: l’oncologia riabilitativa
«Senza più cancro, ma non liberi dal cancro». Così definisce i cosiddetti “lungosopravviventi” il professor Marco Bellani, docente di Psicologia clinica alla facoltà di Medicina dell’Università dell’Insubria. Gli fa eco, dall’Istituto dei tumori di Aviano (Pordenone), un’altra psiconcologa, Maria Antonietta Annunziata: «Non si torna più come prima, dopo aver avuto una diagnosi di tumore. Anche se si guarisce».
UNA PAROLA NUOVA - Il centro di Aviano ha svolto in proposito una ricerca contattando oltre 400 persone di varie regioni d’Italia attraverso gli ambulatori oncologici per indagare sulla qualità della vita dei “lungosopravviventi”. E qui va chiarita l’espressione: almeno da noi, in Italia, si intendono quelle persone che da almeno cinque anni sono liberi sia dal cancro sia da terapie anticancro. La parola è relativamente nuova, come piuttosto recente - e in crescita - è il numero di coloro che “ce la fanno” contro il grande male.
«Al primo gennaio 2006 risultavano essere un 1,3 milioni. E in crescita del 3% ogni anno», comunica l’Annunziata. Nell’indagine da lei guidata sono stati sentite persone libere dal male e dalla sua cura da 5 a 31 anni. E il risultato? «Diciamo che come salute psicologica e qualità della vita, anche fisica, si pongono a metà strada tra chi non ha mai avuto il tumore e la fase acuta di quando loro stessi facevano ancora le terapie».
MAI PIU’ INVULNERABILI - Una condizione che la psiconcologa spiega così: «Ricevere la diagnosi di un tumore provoca una ferita profondissima. Si spezza il sentimento di invulnerabilità e di immortalità che - consapevoli o meno - ci portiamo appresso. Per la prima volta vedi la morte in faccia. Morire è un fatto noto, ma fino allora ha sempre riguardato gli altri. Ora invece hai dinanzi la tua morte.
E’ un’esperienza traumatica». Per queste persone che hanno vinto il cancro (almeno da molti anni) e che sono sempre più numerose si pensa a una nuova branca - l’oncologia riabilitativa - che possa seguirli nel tempo per suggerire sia screening biologici sia percorsi psicologici di sostegno sia, ancora, una particolare attività fisica. «Degli effetti a distanza in passato non si parlava mai: semplicemente perché non c’era la “distanza”».
TRAUMA CRONICO - Il professor Marco Bellani parla di “trauma cronico” che resterebbe nel 25-30 per cento («o anche 40 per cento») di quanti vivono una remissione della malattia, ma non ne sono liberi psicologicamente: «Percepiscono sintomi sospetti, sono sempre preoccupati, hanno dei flashback dei periodi peggiori attraversati». Bellani tratteggia una situazione preoccupante e non nota.
Dal non sapere più elaborare le informazioni all’accusare sintomi tipo come il disturbo da stress post-traumatico, dall’avere improvvise paure e pensieri intrusivi al torpore, dal vivere un’emotività fuori controllo - specie se si è vissuta anche una recidiva - al coinvolgimento del linguaggio. «Di fronte a uno shock di solito si dice: sono rimasto senza parole.
Nei lungosopravviventi spesso ci sono ripercussioni nell’area di Broca che è la zona cerebrale deputata al linguaggio e che si riesce a vedere con gli esami di imaging». Sempre attraverso queste indagini sulla nostra “scatola nera” appaiono variate le funzioni della corteccia orbito-frontale, dell’amigdala che è il centro di elaborazione delle emozioni, di altre aree per cui si deduce che il “disordine” in cui vive chi è stato toccato dal cancro sono molto serie. Anche quando con il tempo si attenuano.
TERAPIE “CORPOREE” - E il professor Bellani avverte: «Non va bene affrontare subito questi disturbi con la psicologia, con le terapie della parola. Specie se prevalgono i sintomi corporei (alto battito cardiaco, tremore, tensione muscolare, respiro corto, insonnia per paura) è meglio ricorrere a trattamenti che agiscono sul corpo. Un esempio è l’Emdr (eye movement desensitization and reprocessing) basato sul movimento oculare e che, dice il professor Bellani, può dare buoni risultati a livello delle disfunzioni cerebrali in un tempo relativamente breve. Fondamentale in tutto questo è l’inizio, sottolinea il docente: «Dipende da come l’oncologo ha comunicato la diagnosi di cancro.
Non tutti sono capaci di reggere un simile dolore. Ma oggi prevale l’uso americano di dire tutto a tutti, di colpo. L’oncologo con le sue parole dà la colorazione che avrà il futuro per quel paziente. Lo stress cronico susseguente sarà più o meno lungo e più o meno pesante anche in base al suo approccio di medico curante». Insomma è compito dell’oncologo anche trovare non solo la diagnosi corretta, ma anche le parole per comunicarla.
Serena Zoli
Giornalista professionista, per 30 anni al Corriere della Sera, autrice del libro “E liberaci dal male oscuro - Che cos’è la depressione e come se ne esce”.