L’immunoterapia contro i tumori del sangue rappresenta una tecnica promettente, ma è necessario migliorarla ulteriormente: la ricerca e la sfida di Simona Caruso
L’immunoterapia - un insieme di tecniche innovative che mirano a potenziare e guidare il sistema immunitario contro i tumori - si sta affermando come terapia dal grande potenziale clinico, specialmente nei pazienti che mostrano resistenze alle chemioterapie classiche. La terapia cellulare con cellule CAR-T, in particolare, rappresenta una tecnica molto promettente. I linfociti T del paziente (un particolare tipo di cellule immunitarie) vengono prelevati e modificati geneticamente per produrre la proteina CAR; questo processo permette alle cellule CAR-T di riconoscere specifici bersagli sulle cellule tumorali, aumentando la risposta contro la malattia.
Queste tecnica, tuttavia, presenta ancora una tossicità non trascurabile ed è necessario perfezionarla ulteriormente studiando soluzioni innovative. Simona Caruso, biotecnologa e ricercatrice presso l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, si occupa proprio di immunoterapia e terapie cellulari innovative per la cura delle leucemie infantili. Il suo progetto legato alla leucemia mieloide acuta verrà sostenuto per tutto il 2021 grazie al progetto Gold for Kids di Fondazione Umberto Veronesi, dedicato alla cura dei tumori in età infantile e adolescenziale.
Simona, raccontaci del tuo lavoro.
«L’idea nasce dai recenti successi ottenuti con la terapia cellulare e genica che vede l’utilizzo dei linfociti T geneticamente modificati (CAR-T) per il trattamento della leucemia mieloide acuta. La terapia cellulare, però, ha ancora molti limiti. È per questo motivo che abbiamo voluto proporre una strategia terapeutica innovativa, ugualmente efficace alle CAR-T, ma con una tossicità inferiore».
Limiti di che tipo?
«La terapia con cellule CAR-T sarebbe di difficile applicazione sui pazienti pediatrici, che dovrebbero essere sottoposti a una raccolta di sangue cospicua per generare dai loro linfociti le CAR-T in grado di eliminare la leucemia. Noi invece vogliamo proporre l’utilizzo di un altro tipo di cellule immunitarie, chiamate Natural Killer (NK), che potrebbe rappresentare una terapia cellulare e genica pronta all’uso. Infatti i donatori sani potrebbero donare le proprie NK e, dopo la modifica genica, queste cellule potrebbero essere velocemente utilizzati per trattare i bambini leucemici. Con un solo donatore potremmo trattare molti pazienti contemporaneamente evitando i lunghi tempi di produzione delle CAR-T. Inoltre, aspetto non secondario, le cellule NK risultano essere meno tossiche delle CAR-T».
Perché non ci si è concentrati fin da subito sulle cellule NK nella terapia genica?
«Storicamente le cellule NK hanno avuto poco interesse clinico per la difficoltà nel manipolarle in vitro: sia in termini di espansione sia di modificazione genetica. Oggi, invece, grazie ai recenti sforzi nella conoscenza di questa “piattaforma” cellulare, sembrano essere una buona arma per combattere le leucemie. Ma c’è ancora molto da studiare: come ottimizzare l’espansione su larga scala, migliorare i livelli di trasduzione (cioè la modificazione genica che le rende efficienti verso il tumore), come aumentare la loro persistenza in vivo. Inoltre, la molecola bersaglio che abbiamo identificato per la leucemia mieloide acuta è presente anche su una quota ristretta di cellule sane, in particolare sui precursori del sangue, quindi dobbiamo studiare i potenziali effetti tossici su questa popolazione».
Come intendete portare avanti il vostro progetto durante quest’anno?
«Abbiamo già ottimizzato la molecola CAR usata in passato sulle cellule T: quest’anno ottimizzeremo il processo di produzione delle cellule CAR-NK e valuteremo la loro efficacia, sia in vitro (linee cellulari di leucemia mieloide acuta, ndr) sia in vivo (su modelli animali di topo prima infusi con il tumore, ndr). In seguito, come accennato, valuteremo il grado di tossicità delle CAR-NK sui precursori delle cellule del sangue».
Quali sono le possibili applicazioni per la salute umana?
«A mio avviso questo progetto apre enormi prospettive di cura per i pazienti leucemici. Non solo perché si tratta di una terapia mirata, ovvero in grado di eliminare selettivamente la cellula leucemica, ma perché possiamo parlare per la prima volta di una terapia cellulare pronto all’uso grazie alla possibilità di creare banche di NK-CAR da sangue periferico di donatori sani. La facilità di raccolta e i tempi di produzione ridotti consentiranno di usare la terapia cellulare anche su pazienti che attualmente non possono essere inclusi, come i pazienti con pochi mesi di vita. Inoltre le banche di donatori potrebbero essere una grande arma anche per gli adulti. Occorre ricordare che i pazienti sottoposti a terapia cellulare, solitamente, versano in un stato clinico grave, non solo per la malattia in sé, ma per le numerose terapie a cui sono sottoposti. La raccolta di linfociti T da modificare è complicata, con lunghi tempi di produzione e quindi spesso non è consona alle necessità dei pazienti».
Simona, raccontaci di te: sei mai stata all’estero per fare ricerca?
«No, anche se in passato durante il dottorato ho avuto un paio di possibilità. Avevo contattato una ricercatrice in Inghilterra la quale, dopo un colloquio, era molto felice di accogliermi. Purtroppo il mio responsabile non mi permise di andare perché necessitava della mia presenza in laboratorio. Dopo quella volta, non ho più provato. Oggi, sinceramente, andrei solo per un breve periodo in un gruppo in cui possa acquisire competenze nuove da portare a casa».
Perché hai scelto di intraprendere questo lavoro?
«Ero affascinata dalla medicina, ma al tempo stesso sapevo bene che non avrei mai potuto fare il medico perché non sarei stata in grado di gestire le emozioni. Ho scelto di intraprendere questa strada quando venne a mancare mia nonna per un tumore del polmone che nel giro di due anni la portò via. Da quel momento mi son ripromessa che avrei voluto lavorare nella ricerca oncologica per dare il mio contributo nell’aiuto della cura dei pazienti con il cancro».
Cosa ti piace di più della ricerca?
«Non è mai banale e il più delle volte contraddice positivamente ciò che tu hai pensato e ti stupisce come solo la biologia può fare. Non è come la matematica, dove sempre due più due dà sempre quattro, ma è un continuo mettere in discussione le tue idee».
E cosa invece eviteresti volentieri?
«La continua instabilità professionale, la paura che domani potrebbero non esserci fondi per pagare il mio stipendio e i reagenti per i progetti».
Dove ti vedi fra dieci anni?
«Mi piacerebbe essere moglie, madre e responsabile di un gruppo di ricerca».
Se ti dico scienza e ricerca, cosa ti viene in mente?
«Mi vengono in mente tutte quelle malattie come il linfoma di Hodgkin, la leucemia promielocitica acuta e la leucemia mieloide cronica che prima erano incurabili, mentre oggi in molti casi sono completamente guaribili. Mi vengono in mente i vaccini che hanno debellato gravi malattie, come il vaiolo. E l’anno appena trascorso in cui la Covid-19 ci ha insegnato che la ricerca viene prima di ogni altra esigenza economica e politica».
Una figura che ti ha ispirato nella tua vita personale e professionale.
«I miei genitori sono il mio più grande esempio di umiltà, onestà e rispetto per il prossimo. Con la loro semplicità mi hanno insegnato a credere sempre in ciò che facevo e a darmi la giusta carica quando ne avevo bisogno».
Cosa avresti fatto se non avessi fatto il ricercatore?
«Da piccola ero fermamente convinta di volevo fare l’astronoma e andare nello spazio».
A tuo giudizio, in che modo - e da chi - potrebbe essere aiutato il lavoro di chi fa scienza?
«Ovviamente le istituzioni politiche sono le prime che potrebbero aiutare il mondo scientifico, soprattutto destinando maggiori fondi alla ricerca e riconoscendo una volta per tutte la figura del ricercatore. Oggi in Italia esiste il biologo, esiste il tecnico di laboratorio. Ma la figura del ricercatore non è ancora contemplata professionalmente».
A questo proposito, percepisci fiducia nel tuo lavoro di ricercatrice da parte dell’opinione pubblica?
«Sicuramente sì. Se penso al periodo della pandemia che abbiamo vissuto, l’Italia ha mostrato un grande sentimento di fiducia in tutti gli esperti di scienza che hanno aiutato il governo nel gestire il Covid. Tuttavia, questo periodo ha evidenziato fatti tra loro opposti: quanto sia importante la ricerca e anche quanto sia bistrattata. O meglio, quanto ce ne ricordiamo solo nel momento del bisogno».
Chi è Simona nel tempo libero?
«In paese, con i miei amici di infanzia, abbiamo creato un’associazione culturale per la promozione del territorio mediante attività di teatro e cultura in generale, cercando di creare, nel nostro piccolo, una discreta rete turistica. Da buona meridionale, mi piace cucinare».
Quando è stata l’ultima volta che ti sei commossa?
Quando stavo leggendo la preghiera dei fedeli al matrimonio della mia migliore amica, mentre ho pianto come una bambina quando il mio fidanzato mi ha chiesto di sposarlo».
Sei felice della tua vita?
«Sì, sono molto felice e abbastanza soddisfatta, credo di aver raggiunto molti traguardi».
La cosa che più ti fa arrabbiare.
«La presunzione, l’incoerenza e il dimenticarsi delle proprie origini. Venendo da un piccolo paesino, ho visto molti disconoscere completamente i luoghi in cui sono cresciuti».
E quella che ti fa ridere a crepapelle?
«Quando il mio fidanzato dice che è il mio tuttofare visto che è più bravo di me nelle faccende domestiche».
Il film che più ti piace o ti rappresenta.
«Into the wild: “La felicità è reale solo se condivisa”».
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