Comunicare la diagnosi di leucemia o linfoma ai figli, anche piccoli, aiuta. Una ricerca italiana confronta varie modalità ma conclude che la conoscenza genera serenità e il medico è fondamentale
Quando ad ammalarsi di un tumore è un padre o una madre con figli minori un problema che si pone è come informare i ragazzi e bambini, o addirittura ci si chiede se tenerli all’oscuro di tutto inanellando una serie di bugie su ricoveri, visite, malesseri al fine di proteggerli dal dolore e dalla paura. Sull’argomento è stato condotto uno studio specifico a Monza, all’Irccs Ospedale San Gerardo, pubblicato sulla rivista The Oncologist.
LEUCEMIE O LINFOMI, UN PERCORSO PARTICOLARE
Specifico anche all’interno della malattia oncologica perché qui si sono considerati soltanto i genitori colpiti da patologie ematologiche. Il significato di questa scelta lo spiega la prima autrice della ricerca, la dottoressa Beatrice Manghisi: «Discussioni su come comunicare ai figli minori un cancro dei genitori se ne sono fatte tante, ma non ne esistono sul caso particolare dell’ematologia. Che presenta aspetti peculiari: leucemie acute e linfomi aggressivi spesso hanno un esordio improvviso che richiedono il ricovero immediato e quasi sempre di lunga durata, un mese, o più. I figli da un giorno con l’altro si vedono sparire il genitore e stare via a lungo. Che cosa dirgli? In tutto questo sconquasso della famiglia la loro è la “voce dimenticata”».
QUESTIONARI SUI COMPORTAMENTI DEI FIGLI
In totale nell’indagine monzese tra il 2017 e il 2021 sono stati arruolati 20 pazienti nell’ematologia del San Gerardo e altri 12 nelle ematologie dell’Ospedale Niguarda e del Policlinico di Milano, del Policlinico San Matteo di Pavia. I minori complessivamente coinvolti sono stati 51. Attraverso appositi questionari le coppie di genitori hanno informato i medici sui principali comportamenti dei loro figli e sugli eventuali cambi di condotta nel rapporto con la scuola, circa l’appetito, il sonno, l’attaccamento alle diverse persone della famiglia, il dialogo in casa.
A PARLARE LO PSICOLOGO O I GENITORI
In tutti i quattro ospedali si è scelta la comunicazione ai figli minori sulla malattia del padre o della madre con le sue caratteristiche del momento e future, ma diverse sono le modalità scelte. A Niguarda è lo/la psicologo/a che informa i figli piccoli mentre nei due Policlinici di Milano e di Pavia il compito è lasciato ai genitori. Diversa la scelta del San Gerardo, in corso già dal 2009 con il “Progetto Emanuela” (dal nome di una piccola paziente deceduta), per il quale si è cercato un confronto con l’indagine su altri centri. Numeri purtroppo piccoli perché nel corso della ricerca c’è stato il periodo Covid.
SAPERE AIUTA A CREARE UN AMBIENTE DISTESO
Ma delle differenze sono emerse. Negli altri ospedali i figli mostravano un maggiore attaccamento al genitore sano e una maggiore difficoltà a separarsi dalle figure della famiglia. Nei bambini con padre o madre ricoverati a Monza c’era una grande facilità a parlare “spesso” o ”sempre” della malattia in famiglia. Senza remore. Sottolinea la dottoressa Manghisi: «In tutti i casi esaminati, comunicare la diagnosi di malattia ematologica ai figli minori, seppure con modalità differenti nei quattro centri, si è visto avere un impatto positivo, senza cambiamenti allarmanti nei comportamenti di bambini e ragazzi. Una comunicazione sincera e aperta in merito a questa tematica difficile promuove il dialogo all’interno della famiglia, senza necessità di tenere nascosti ricoveri ed effetti collaterali delle terapie».
DAL GIARDINO FIORITO ALLE SQUADRE DI CALCIO
Ma qual è il metodo “Emanuela”, che a suo tempo è stato ispirato dalla dottoressa Lorenza Borin, co-autrice della ricerca? Il ruolo centrale è dello specialista, il medico ematologo: è lui che spiega la malattia, le terapie, i loro effetti. Col sostegno di uno psicologo e la presenza dei genitori. Non usa però termini da specialista se i figli sono piccoli: il racconto è veritiero ma espresso attraverso metafore e immagini che rendono più comprensibile e più tollerabile la realtà. Vediamole queste “fantasie” che addobbano diagnosi e tragitti difficili. La metafora del giardino fiorito viene impiegata per spiegare la leucemia acuta. Il midollo osseo è descritto come un prato fiorito e i blasti di leucemia come erbacce che infestano il prato. L’ematologo allora impiega uno speciale diserbante (chemioterapia) che lascia il prato vuoto durante una fase chiamata aplasia, permettendo così la crescita di nuovi fiori sani.
LA SERRA METAFORA DELLA CAMERA STERILE
Altra immagine: quella della fabbrica dove le macchine sono rotte è impiegata per spiegare le sindromi mielodisplastiche. L’immagine di una serra, che protegge i fiori dal cattivo tempo, aiuta a capire la necessità di un ricovero in una stanza sterile. Per raccontare la scelta del donatore nel trapianto di midollo osseo e le complicazioni post-trapianto come la “malattia del trapianto contro l'ospite”, viene utilizzata la metafora delle squadre di calcio che indossano divise differenti, per rappresentare il sistema immunitario del donatore che combatte contro i tessuti del ricevente.
Alla fine, lo psicologo aiuta i ragazzi ad esprimere emozioni e paure con domande dirette o giochi o facendoli disegnare a seconda delle loro età. Conclude il professor Carlo Gambacorti Passerini, direttore della Struttura complessa Ematologia adulti del San Gerardo: «La nostra esperienza con il “Progetto Emanuela” ci convince fortemente del ruolo chiave che il medico ematologo può svolgere nella comunicazione con i figli dei pazienti. Questo nuovo ruolo del medico sembra avere un impatto positivo sui pazienti stessi, migliorando la comprensione della malattia, la fiducia nel personale sanitario e l’alleanza terapeutica medico-paziente».
Serena Zoli
Giornalista professionista, per 30 anni al Corriere della Sera, autrice del libro “E liberaci dal male oscuro - Che cos’è la depressione e come se ne esce”.