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Francesca Borsetti
pubblicato il 16-07-2024

Studiare il ruolo degli ormoni tiroidei nei tumori della pelle



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La ricerca di Caterina Miro punta a migliorare la cura dei carcinomi della pelle squamocellulari. Il racconto del suo lavoro, l'amore per la scienza nato alle superiori e il ricordo del nonno malato di tumore

Studiare il ruolo degli ormoni tiroidei nei tumori della pelle

Gli ormoni tiroidei sono importanti regolatori di diverse funzioni biologiche, come il metabolismo cellulare e il funzionamento di tessuti e organi come la pelle. Questi ormoni sono alterati in diversi tumori umani, a causa di un malfunzionamento di alcuni enzimi noti come desiodasi (D1, D2 e D3).

Caterina Miro è ricercatrice presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II dove studia il ruolo della desiodasi D2 nello sviluppo e progressione del carcinoma squamocellulare, un tumore della pelle. Obiettivo della ricerca sarà valutare la relazione tra D2 e la resistenza ai farmaci: i risultati potrebbero aiutare a identificare nuove molecole da utilizzare in combinazione ai farmaci antitumorali convenzionali. Il progetto sarà sostenuto per il 2024 da una borsa di ricerca di Fondazione Veronesi.

Caterina, come nasce l'idea del vostro lavoro?

«Il progetto nasce da precedenti osservazioni del nostro gruppo di ricerca. Nello specifico, abbiamo dimostrato l’importanza del controllo dei livelli intracellulari di ormone tiroideo nel carcinoma squamocellulare della pelle (SCC). In questo tipo di tumore, i livelli dell'ormone tiroideo sono bassi nelle prime fasi dello sviluppo della malattia ma aumentano nelle fasi più avanzate, contribuendo alla sua progressione e alla sua invasività. L’enzima D2 regola i livelli di ormone tiroideo e lo attiva. Per questo motivo, la nostra attenzione si è focalizzata sul ruolo della D2 nel cancro della pelle, soprattutto sulla sua capacità di regolare il meccanismo di riparo del danno del DNA».

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Che cosa volete studiare?

«Alcuni dati preliminari suggeriscono che potrebbe esserci un ruolo significativo dell'ormone tiroideo nella comunicazione tra le cellule tumorali e il microambiente, l’insieme di tessuti e cellule che avvolge il tumore. Studiare questa relazione potrebbe fornire nuove informazioni sulla formazione dei tumori cutanei. Inoltre, vorremmo capire meglio come l'ormone tiroideo influenza la chemioterapia e l’insorgenza di resistenze ai farmaci. Questo aspetto è molto interessante, ma ancora poco studiato nel carcinoma squamocellulare della pelle».

Come intendete portare avanti il vostro progetto quest’anno?

«Inizieremo raccogliendo biopsie di SCC direttamente dai pazienti per creare colture di organoidi, colture tridimensionali in vitro che permettono di studiare il tumore umano. Queste colture permetteranno di individuare la presenza di D2 nel tumore e di cercare sostanze in grado di inibirne l'azione (e di conseguenza la progressione del tumore). In parallelo, sempre in vitro, analizzeremo i cambiamenti dell'ormone tiroideo nelle cellule tumorali quando insorgono resistenze ai farmaci».

Quali sono le prospettive a lungo termine?

«In questo progetto vorremmo identificare nuovi inibitori della D2 che possano essere combinati con altri farmaci approvati per trattare il SCC. Abbiamo già individuato un potenziale inibitore della D2, chiamato cefuroxima, che ha mostrato risultati promettenti in esperimenti preliminari in vitro. Tuttavia, poiché la cefuroxima ha anche proprietà antibiotiche, non è adatta per un uso a lungo termine. Per questo motivo è importante identificare altri inibitori della D2 che siano sicuri per i pazienti oncologici e non causino ulteriori problemi di salute».

Caterina, ricordi il momento in cui hai scelto di diventare ricercatrice?

«Durante la mia formazione superiore, la professoressa Argenziano mi ha fatto scoprire la passione per le materie scientifiche e soprattutto per la biologia. Le sue lezioni mi stimolavano a pormi ulteriori domande. Così ho capito che la scienza sarebbe stata il mio futuro. Successivamente mi sono iscritta alla triennale in biologia e questa scelta mi ha indirizzato verso la ricerca».

Cosa ti piace di più della ricerca?

«Farsi delle domande continue e tentare vari approcci per avere delle risposte, che molto spesso richiedono studi di mesi o anni. A volte può esserci della frustrazione, ma poi quando arriva “la risposta” si è investiti da una grande soddisfazione e si riceve quell’impulso necessario per continuare a investigare con passione».

E cosa invece eviteresti volentieri?

«Eviterei i lunghi anni di precariato e le corse verso posizioni più sicure che, ahimè, spesso arrivano solo in età adulta».

Dove ti vedi fra dieci anni?

«Mi piacerebbe gestire un mio gruppo in un istituto di eccellenza».

Come rispondi quando ti chiedono che lavoro fai?

«Se la domanda è posta da persone fuori dal mio campo, rispondo semplicemente che lavoro in un laboratorio di ricerca».

Che cosa avresti fatto se non avessi fatto la ricercatrice?

«Molto probabilmente avrei scelto la strada dell’insegnamento».

Caterina, qual è il senso che dà un significato profondo alle tue giornate lavorative?

«La mia passione per la ricerca risale a oltre 12 anni fa, quando ho fatto il mio ingresso nel centro di ricerca oncologica CROM di Mercogliano per lavorare sulla mia tesi magistrale. In quel periodo mi sono dedicata allo studio del trattamento terapeutico per il mesotelioma pleurico maligno, una malattia particolarmente rilevante per la comunità campana, soprattutto per gli abitanti di Avellino e provincia, a causa dell'esposizione all'amianto. La storia dei lavoratori dell'Isochimica di Avellino che avevano sviluppato la malattia mi ha profondamente colpito, spingendomi ad appassionarmi alla ricerca. Volevo contribuire dedicando il mio impegno allo studio di questa malattia e alla ricerca di terapie. Non sapevo ancora quale sarebbe stato il mio percorso futuro, ma una volta laureata ho subito cercato un nuovo laboratorio per approfondire altri argomenti di ricerca. Ho iniziato in un laboratorio del policlinico di Napoli in cui ho svolto un tirocinio volontario di un anno. Gli sforzi e i sacrifici che ho fatto in quel periodo sono stati mossi dal desiderio di contribuire, anche se in modo minimo, a migliorare la vita delle persone. Credo fermamente che insieme possiamo farcela».

In che cosa, secondo te, potrebbero migliorare le carriere scientifiche?

«Credo sarebbe importante fornire un maggiore sostegno ai giovani che si avvicinano al mondo della ricerca, assicurando loro posizioni più stabili e stipendi adeguati. Troppo spesso, soprattutto per coloro che si trovano lontani da casa, è difficile mantenere uno standard di vita dignitoso. Conosco persone che rinunciano alla ricerca per timore di rimanere intrappolate in un sistema che tende a trascinarle negli anni, senza possibilità di evoluzione».

Cosa fai nel tempo libero?

«Vivo a Napoli, per cui al di fuori delle ore lavorative mi dedico principalmente alla gestione della casa. Inoltre, frequento una palestra e mi dedico alle amicizie. Nel fine settimana torno in provincia di Avellino e dedico la maggior parte del tempo libero ai miei genitori e ai miei nipoti».

Quando è stata l’ultima volta che hai pianto?

«È successo a maggio 2023, quando a mio padre è stato diagnosticato un linfoma non-Hodgkin al quarto stadio. La notizia mi ho fatto cadere nello sconforto e mi sono sentita persa. Era necessario essere forti, per cui dopo un iniziale percorso di metabolizzazione della notizia, ho deciso di essere “grande” e aiutare il mio papà come meglio potevo».

Una cosa che vorresti assolutamente vedere almeno una volta nella vita?

«L’aurora boreale».

Qual è la cosa di cui hai più paura?

«Perdere una persona cara».

La cosa che più ti fa arrabbiare?

«L’ipocrisia. Sono una persona molto limpida e chiara, per cui spero di trovare lo stesso negli altri, ma chiaramente non è sempre così».

La cosa che ti fa ridere a crepapelle?

«L’ironia dei film di Siani».

Hai un ricordo a te caro di quando eri bambina?

«Un ricordo che custodisco con affetto risale al periodo in cui mio nonno materno fu colpito da un tumore al cervello e aveva perso l’uso del linguaggio, per cui emetteva solo dei versi. Ricordo che quando lo portavamo fuori al sole mi cantava “O sole mio”».

Perché è importante donare a sostegno della ricerca scientifica?

«Credo che la parola donare sia sinonimo di nobiltà. Qualsiasi forma di donazione rappresenta un gesto altamente nobile. Farlo per la ricerca consente alle tante persone come me di studiare e scoprire sempre nuovi aspetti delle varie forme di cancro, che potrebbero salvare la vita di tante persone. Oggi posso dire con fermezza che è grazie alla ricerca se posso ancora abbracciare mio padre!»

Cosa vorresti dire alle persone che scelgono di donare a sostegno della ricerca scientifica?

«Alle persone che scelgono di donare stringerei la mano e direi grazie. È importante per noi ricercatori essere sostenuti: scegliere di donare significa avere fiducia nella ricerca. Noi ricercatori e ricercatrici ce la mettiamo tutta per non deludervi!».

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