La sensibilizzazione inizia a sortire i primi effetti. Ma in Italia ogni anno diecimila persone continuano a morire per un uso poco appropriato degli antibiotici
Avanti, a piccoli passi. Ma - finalmente - avanti. Dopo anni di crescita, la resistenza agli antibiotici in Italia fa registrare la prima inversione di tendenza. Nel 2018 nel nostro Paese le percentuali per gli otto patogeni posti sotto sorveglianza - Staphylococcus aureus, Streptococcus pneumoniae, Enterococcus faecalis, Enterococcus faecium, Escherichia coli, Klebsiella pneumoniae, Pseudomonas aeruginosa e Acinetobacter species - sono state sì più alte rispetto alla media europea, ma in calo rispetto agli anni precedenti. Questa è l'istantanea scattata dall'Istituto Superiore di Sanità in occasione della settimana mondiale sulla consapevolezza dell'uso degli antibiotici, in programma fino al 24 novembre.
RESISTENZA AGLI ANTIBIOTICI: MAGLIA NERA ALL'ITALIA
Considerata una delle emergenze globali dall'Organizzazione Mondiale della Sanità, la resistenza agli antibiotici provoca ogni anno 33mila decessi in Europa (di cui almeno 10mila in Italia) e quasi 880mila casi di disabilità. Numeri che descrivono un impatto uguale a quello determinato sommando gli effetti dell'influenza, dell'Aids e della tubercolosi messe assieme. Quello che si osserva è la causa delle capacità di eludere l'azione battericida degli antibiotici sviluppate dai microrganismi. Un fenomeno - può essere dovuto alla mutazione del materiale genetico o all'acquisizione di geni di resistenza da altri batteri - che gli esperti considerano per certi versi fisiologico. Si tratta, a conti fatti, di una forma di adattamento come quelle che ogni essere vivente sviluppa nei confronti di un «nemico». Ma che negli ultimi vent'anni è stato accelerato anche dal cattivo utilizzo che l'uomo ha fatto di questi farmaci: per curare se stesso e per ridurre l'impatto delle infezioni negli allevamenti. Non bisogna stupirsi, dunque, se «i livelli di resistenza a uno o a più antibiotici sono ancora molto alti nel nostro Paese», per dirla con Annalisa Pantosti, direttore del reparto di malattie batteriche, antibioticoresistenza e patogeni speciali dell’Istituto Superiore di Sanità. Segno che, nonostante gli sforzi messi in campo finora, «dobbiamo migliorare e rendere più incisive le attività di contrasto del fenomeno a livello nazionale, regionale e locale».
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LE SPECIE PIU' RESISTENTI
Osservando il dettaglio italiano, il 2018 è stato il primo anno in cui si è registrato un lieve calo del fenomeno. Lo scorso anno le percentuali di resistenza di Escherichia Coli alle cefalosporine di terza generazione e ai fluorochinoloni hanno riguardato, rispettivamente, il 29 e il 42 per cento delle infezioni trattate. Una diminuzione significativa ha riguardato anche la capacità del batterio Klebsiella pneumoniae di eludere l'azione dei carbapenemi (dal 37 al 30 per cento dei casi, tra il 2016 e il 2018). Stesso trend seguito nei confronti della stessa categoria di antibiotici dalle specie Pseudomonas aeruginosa (16 per cento) e Acinetobacter, con quest'ultima però in grado di «smarcarsi» dai farmaci addirittura nell'82 per cento delle infezioni. Stabile la resistenza di Staphylococcus aureus nei confronti della meticillina (34 per cento), mentre incrementi significativi si sono riscontrati nella percentuale di isolati di Enterococcus faecium resistenti alla vancomicina (dal 6 al 19 per cento in sei anni).
I RISCHI PIU' GRAVI DALLA SEPSI
I batteri resistenti agli antibiotici causano una lunga serie di infezioni: delle vie urinarie, cutanee, polmoniti, diarree. «Curare le infezioni causate da batteri resistenti, che possono colpire anche chi non ha mai preso un antibiotico, è difficile - - afferma Alessandro Marocchi, direttore del Laboratorio dell'Ospedale Fatebenefratelli di Erba (Como) -. Non sempre infatti esiste un'alternativa per quegli antibiotici prima utilizzati con regolarità e nel tempo divenuti privi di efficacia. Questo può ritardare l’individuazione della terapia più appropriata e causare complicanze che possono anche portare alla morte del paziente». I rischi maggiori sono legati alla batteriemia, ovvero alla diffusione del patogeno in questione nel sangue. Queste situazioni sono di norma sempre più complesse da trattare, soprattutto in ragione del ridotto apporto di ossigeno nei tessuti colpiti dall'infezione. A riguardo, oggi l'emergenza più temuta è rappresentata dagli enterobatteri (Klebsiella pneumoniae ed Escherichia Coli) che producono le carbapenemasi, enzimi in grado di provocare la resistenza ad antibiotici ad ampio spettro. Così arrestare la replicazione di questi patogeni può diventare una missione impossibile.
Fonti
Fabio Di Todaro
Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).