Uno studio americano conferma che lo screening per il tumore del colon retto riduce i tassi di mortalità. Basse le adesioni in Italia
Lo screening può salvare la vita. Si confermano sostanziali i benefici delle procedure di controllo nell’identificazione precoce del tumore del colon-retto. Il messaggio, rivolto alla popolazione di età compresa tra 50 e 75 anni, è stato diffuso dalla task force degli Stati Uniti sui servizi preventivi, che ha aggiornato le più recenti raccomandazioni sullo screening del cancro del colon, una malattia che in Italia ha contato nel 2015 cinquantaduemila nuove diagnosi e poco meno di ventimila decessi.
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BENEFICI DELLO SCREENING CONFERMATI DOPO I 50
Gli esperti statunitensi hanno confermato l’importanza delle procedure di screening (ovvero di controlli periodici anche se non si hanno sintomi sospetti) nella popolazione adulta per prevenire il tumore del colon, che è il secondo tumore più diffuso nella popolazione e che nella maggior parte dei casi si manifesta dopo il mezzo secolo di vita. Le indicazioni sono incentrate sull'importanza dei controlli, più che sulla loro tipologia. Nella fascia d’età considerata, tutti traggono un beneficio dall’indagine di massa: persone mai visitate prima e soggetti con familiarità per la malattia, pazienti affetti da malattie infiammatorie croniche intestinali o a cui è già stato asportato un polipo (escrescenza benigna che può evolvere in carcinoma). Lo screening rappresenta dunque l’unica arma per scoprire la malattia allo stadio iniziale e asportarla per via chirurgica. È questa la via più semplice per ridurre la mortalità da tumore del colon-retto , oggi in Italia assestata all’undici per cento. Dopo i 75 anni «il beneficio può comunque esserci, anche se più modesto - si legge nel documento, pubblicato sul Journal of the American Medical Association -. La decisione di sottoporre una persona anziana a una procedura di screening deve essere assunta sulla base della sua storia clinica».
TUMORE AL COLON NEGLI UNDER 50:
SI PUO' FARE PREVENZIONE?
QUAL E' L’ESAME PIU' AFFIDABILE?
Nella loro analisi, i ricercatori statunitensi hanno tenuto in considerazione tutte le procedure di screening oggi utilizzate nel mondo. Negli ultimi anni, infatti, il ventaglio delle opportunità è cresciuto. La ricerca del sangue occulto nelle feci rimane la più adottata e semplice per i pazienti, ma a questa indagine ne sono state aggiunte delle altre, parimenti non invasive (non è richiesta la preparazione, come nel caso della colonscopia). Una di queste è il test immunochimico fecale (Fit), in grado di segnalare anche lesioni non sanguinanti analizzandodegli anticorpi che si legano a proteine del sangue umano eventualmente presenti nelle feci e che sono marker di lesioni precancerose o cancerose. Un’altra soluzione è data dalla ricerca del dna delle cellule tumorali nelle feci (Fit-Dna), considerata meno specifica e dunque più spesso (rispetto alle due precedenti) accompagnata da una colonscopia, necessaria per confermare il primo risultato. Nel rapporto - che considera anche procedure più invasive come la colonscopia virtuale, quella tradizionale, la sigmoidoscopia da sola o abbinata al test immunochimico fecale - non viene stilata una classifica in termini di attendibilità. Più semplicemente si precisa che «un simile ventaglio di opzioni può aumentare il numero di persone che si sottopongono allo screening e ridurre i tassi di mortalità per il tumore del colon-retto».
Prove di screening (anche) per il tumore all’ovaio
LA SITUAZIONE IN ITALIA
In Italia lo screening per la neoplasia è inserito nei Livelli Essenziali di Assistenza (Lea), assieme a quello per il tumore al seno (mammografia) e alla cervice uterina (Pap test o ricerca del Dna del papilloma virus). Ciò vuol dire che la ricerca del sangue occulto nelle feci viene garantita gratuitamente a tutti i connazionali di età compresa tra i 50 e i 69 anni (a cadenza biennale).
Se l’esame dà esito positivo, il protocollo prevede che la persona si sottoponga a una colonscopia. Questo sulla carta, perché in realtà le differenze su base regionale sono significative. Non si spiegherebbe, altrimenti, come mai «sei italiani su dieci con più di cinquant’anni non si siano mai sottoposti al test di screening», ricorda Francesco Cognetti, direttore del dipartimento di oncologia medica dell’Istituto Tumori Regina Elena di Roma. Quota che supera il settanta per cento, negli over 70. Come spiegare questi dati? L’organizzazione delle campagne di screening è coordinata dai governi locali: ecco perché al Nord (in media) l’82 per cento della popolazione interessata risponde all’invito inviato, mentre in alcune regioni meridionali i tassi sono sensibilmente inferiori. Tutta colpa dei cittadini? Evidentemente no, se la richiesta di sottoporsi alla procedura di prevenzione secondaria per il tumore del colon-retto è stata inviata nel 2014 - anno a cui fanno riferimento gli ultimi dati disponibili - ad appena sette pugliesi e ventidue calabresi su cento. Migliore la situazione in Campania: il 40,4 per cento degli uomini e donne con un’età compresa tra 50 e 75 è stato raggiunto dall’invito a sottoporsi allo screening. Complessivamente l’estensione degli inviti al Sud nel 2014 è stata del 37 per cento. Ancora troppo poco per definire superata la questione meridionale: anche nel campo degli screening oncologici.
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Fabio Di Todaro
Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).