Uno studio su oltre duecentomila donne rivela una certa utilità di marcatori e ecografia annuali. Ma è ancora presto per pensare a esami a tappeto per tutte le donne
Quando lo si scopre, ha spesso percorso già troppa strada: il tumore all'ovaio in moti casi lascia poche possibilità di cura. Una donna su quattro che scopre di averlo in fase avanzata sopravvive a cinque anni dalla diagnosi, resa complicata dalla scarsa accessibilità dei due organi (le ovaie) e dalla presenza di sintomi aspecifici. Lo screening? Finora nessun esame ha dato garanzie per essere esteso a tutta la popolazione femminile. Ma a riaccendere il dibattito sono le conclusioni della più corposa ricerca mai condotta sulla sua validità, guidata dai ricercatori dell'University College di Londra.
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SI RIAPRE IL DIBATTITO
L'indagine, i cui risultati sono stati pubblicati su The Lancet, ha visto coinvolte oltre duecentomila donne di età compresa tra 50 e 74 anni, arruolate da 13 centri: tra Gran Bretagna, Galles e Irlanda del Nord. Nessuna presentava fattori di rischio per la malattia come casi in famiglia di neoplasia delle ovaie, specifiche alterazioni genetiche, rimozione di entrambi gli organi (ovariectomia bilaterale) e precedenti diagnosi oncologiche. Il campione è stato suddiviso in tre gruppi. Nel primo, detto di controllo, non è stato effettuato alcun esame mirato a scovare in tempo la malattia. Nel secondo le donne hanno effettuato il dosaggio annuale del marcatore CA 125 (alti livelli nel sangue possono indicare una neoplasia, ma pure una gravidanza, l'endometriosi o la sola presenza del ciclo mestruale) accompagnato da un'ecografia transvaginale (a oggi il miglior strumento di diagnosi del tumore all'ovaio). Nel terzo gruppo le donne sono state monitorate con un'ecografia transvaginale annuale. Primo obiettivo dell'indagine era rilevare i tassi di morte per carcinoma ovarico. Escludendo le pazienti che con l'adesione allo studio si sono scoperte ammalate, l'analisi ha rilevato un calo della mortalità dell’otto per cento nei primi sette anni e del 20 per cento tra i sette e i quattordici anni dall’inizio dello screening. Meno efficace, invece, l’approccio con la sola ecografia. Secondo Ian Jacobs, direttore del dipartimento di ricerca sulla salute della donna all'University College di Londra, «trattasi di risultati che provano l'efficacia di uno screening multimodale nella scoperta del cancro in un tempo utile a modificare la storia naturale della malattia». Ma gli stessi autori dello studio hanno affermato che «l'estensione dello screening all'intera popolazione dipenderà da un ulteriore follow-up. Restano da determinare la riduzione di mortalità nel tempo e l'opportunità economica».
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ANCORA PRESTO PER APRIRE ALLO SCREENING
Visti gli scarsi progressi registrati in ambito terapeutico nei confronti del tumore all'ovaio, l'idea di concentrare tutte le risorse sulla possibilità di scovare la malattia in tempo utile è da tempo al centro del dibattito tra gli esperti. Le evidenze finora raccolte non hanno però fatto chiarezza sull'utilità dello screening. Se un'indagine effettuata in Giappone nel 2008 - i cui risultati sono apparsi sull'International Journal of Gynecological Cancer - ha evidenziato un aumento non significativo delle diagnosi nelle donne sottoposte a screening per il tumore dell'ovaio, un analogo approccio (dosaggio del CA 125 ed ecografia transvaginale) ripetuto negli Stati Uniti nel 2011 - dati consultabili sul Journal of the American Medical Association - non ha riportato una riduzione di mortalità. Tornando alla ricerca inglese, i dati in valore assoluto permettono di stimare quindici decessi in meno ogni diecimila donne che si sottopongono a un programma di screening multimodale (in un periodo di tempo compreso tra sette e undici anni). Ancora troppo poco per garantire lo screening - visti i costi per i sistemi sanitari di una simile operazione - nella pratica quotidiana. «Se soltanto sei tumori ovarici su dieci sono scoperti attraverso il dosaggio del CA 125 abbinato all'ecografia, abbiamo bisogno di capire perché e come la pratica ha un effetto significativo, seppur ritardato, sulla sopravvivenza», affermano René Verheijen e Ronald Zweemer, dipartimento di oncologia ginecologica del Cancer Center di Utrecht, in un commento apparso su The Lancet.
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ESPERTI ITALIANI FIDUCIOSI, MA CAUTI
L’opinione trova d’accordo Giovanni Scambia, direttore del dipartimento per la tutela della salute della donna e della vita nascente del bambino e dell'adolescente al Policlinico Universitario Gemelli di Roma. «Iniziamo a vedere la luce in fondo al tunnel, ma non siamo ancora alla soluzione definitiva. Questo lavoro rappresenta una pietra miliare per portare avanti la sperimentazione. Ce n’è ancora di strada da fare, però, per arrivare all’efficacia del pap test o della ricerca del papillomavirus umano con cui oggi di fa la diagnosi precoce del tumore della cervice uterina». Sulla stessa posizione Sandro Pignata, direttore della struttura complessa di oncologia medica uro-ginecologica dell'Istituto Nazionale Tumori Pascale di Napoli. «Otto diagnosi su dieci di tumore dell’ovaio avvengono in fase avanzata, quando sono già presenti metastasi peritoneali. Le conclusioni di questo lavoro sono incoraggianti, ma richiedono un approfondimento, soprattutto in tema di economia sanitaria. Al momento l’unica opportunità che abbiamo di ridurre la mortalità di questa neoplasia è legata all’identificazione precoce delle donne a rischio. Esistono però ancora troppe differenze su base regionale nell’accesso al test genetico, dal cui esito si decide se procedere o meno con la chirurgia profilattica una volta messo alle spalle il periodo fertile».
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Fabio Di Todaro
Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).