Gli screening oncologici rappresentano la più incisiva strategia di diagnosi precoce dei tumori al seno, al colon-retto e al collo dell'utero. Ma una gran parte degli italiani li ignora
Gli italiani sembrano non credere nella prevenzione, soprattutto quella praticata con gli screening. Questo è quanto emerge dai dati relativi al 2010 dell'Osservatorio nazionale screening: da Roma in giù, tre anni fa, il 38% delle donne over 50 si sottopose a una mammografia (rispetto al 90% delle donne settentrionali), mentre appena il 30% degli adulti si sottopose al test del sangue occulto. Perché questa diffidenza? La soluzione sta sempre nel giusto compromesso tra quanto emerge dalle ricerche scientifiche e i costi per il sistema sanitario. Fatta questa premessa, l'efficacia degli screening è fuori discussione: validati a livello statale e accettati dalle Regioni, rappresentano la più incisiva strategia di diagnosi precoce di una malattia nella popolazione a rischio. Per metterli in atto, però, è necessario che si tratti di una malattia ad alta prevalenza. Servono evidenze inconfutabili: sui metodi diagnostici e sull'utilità delle terapie utilizzate. Più che cambiare l'epilogo della malattia, gli screening hanno l'obbiettivo di allungare i tempi di sopravvivenza post-diagnosi. È importante che, prima di avviare una campagna, si valuti la possibilità che l'intervento possa produrre più benefici che danni nella popolazione cui è offerto.
QUESTIONE DI COSTI
L'iter per la validazione delle procedure di screening è scandito da tre tappe. Il primo compito spetta alla ricerca scientifica, chiamata a mettere sul banco le evidenze che provano l'utilità della diagnosi precoce. I dati sono poi valutati da apposite commissioni ministeriali e, se accettati, vengono inseriti negli atti d'intesa della Conferenza Stato-Regioni. «Fare una simile indagine per poche persone può essere uno spreco», spiega Silvio Garattini, direttore dell'istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano. Il filo è sempre sottile: da una parte ci sono le esigenze dei pazienti e delle loro famiglie, dall'altra quelle di chi gestisce le politiche sanitarie e deve garantire la necessaria assistenza pur facendo quadrare i conti. Al momento gli esami mirati alla diagnosi precoce dei tumori, inseriti nei livelli essenziali di assistenza (Lea), riguardano soltanto il cancro al seno, il tumore della cervice uterina e il carcinoma del colon retto. Per le tre patologie, le Regioni assicurano gli esami gratuiti (mammografia, pap-test, ricerca di sangue occulto nelle feci) e, in caso di positività, a carico del sistema sanitario sono anche i successivi accertamenti. «Parliamo degli esami previsti in tutta Europa, dove però i livelli di partecipazione sono più alti rispetto a quelli italiani - sostiene Marco Zappa, epidemiologo e responsabile dell'Osservatorio nazionale screening -. Per la prevenzione del tumore della cervice uterina sono in corso diversi progetti pilota con il test virale e il vaccino è somministrato gratuitamente alle dodicenni. In prospettiva, dunque, il pap-test potrebbe rimanere soltanto sui testi di storia della medicina».
UN PAESE A MACCHIA DI LEOPARDO
Tutte le regioni garantiscono i suddetti screening. Disparità, però, emergono nel ruolo attivo degli enti locali. Non trattandosi di esami obbligatori, infatti, fondamentale è l'invito rivolto alla cittadinanza: quando c'è, la partecipazione è più alta. È questo il motivo per cui la realtà nazionale rimane piuttosto frammentata, con le regioni meridionali in ritardo rispetto al resto del Paese. È quanto emerge dai dati relativi al 2010 dell'Osservatorio nazionale screening: da Roma in giù, tre anni fa, il 38% delle donne over 50 si sottopose a una mammografia (rispetto all'89% delle donne settentrionali), mentre appena il 30% degli adulti partecipò all’esame della ricerca del sangue occulto (rispetto al 90% dei settentrionali). «I pazienti devono essere invitati, altrimenti preferiranno sempre rimandare gli accertamenti», precisa Garattini.
LE PROSPETTIVE
La tac spirale per la diagnosi del tumore del polmone e il dosaggio del psa (antigene specifico della prostata) potrebbero essere i prossimi screening oncologici a essere inseriti nei Lea. Un filone interessante è quello che riguarda lo screening neonatale delle malattie rare. La Toscana è l'esempio da seguire: dal 2004 al Meyer di Firenze, da una sola goccia di sangue, si possono diagnosticare fino a quaranta malattie metaboliche. Sullo stesso solco si stanno inserendo diverse regioni italiane, in cui sono in corso progetti pilota. Garattini: «Le malattie metaboliche possono manifestarsi diversi anni dopo la nascita: perciò una loro diagnosi precoce sarebbe molto importante». Di queste patologie, soltanto tre sono inserite nei Lea: ipotiroidismo congenito, fenilchetonuria e fibrosi cistica.
Fabio Di Todaro
Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).