Lo screening riduce la mortalità per tumore del colon-retto di quasi un terzo. Ma la recrudescenza della pandemia rischia di fermare gli esami diagnostici
Da solo, non è sufficiente per giungere a una corretta diagnosi. Ma il primo passo di uno screening oncologico non è mai - potenzialmente - alla portata di tutti come lo è nel caso del tumore del colon-retto. Ogni 24 mesi, tra i 50 e i 69 anni, uomini e donne dovrebbero effettuare la ricerca del sangue occulto nelle feci. Si tratta di un’indagine gratuita (a carico del servizio sanitario nazionale), che si effettua a casa e in pochi minuti restituisce (o meno) un indizio della possibile presenza di un polipo intestinale. O, nei casi più gravi, di quello che è un tumore del colon-retto a tutti gli effetti. Step successivo, a fronte di un esame positivo, è la colonscopia, da cui inizia il (vero e proprio) percorso diagnostico. E siccome più la scoperta di una malattia oncologica è tempestiva, maggiori sono le chance di superarla, si capisce perché ritardando la ricerca del sangue occulto nelle feci, chi è già ammalato (e non lo sa) corre il rischio di avere probabilità ridotte di guarire da quello che nel 2020 si confermerà il secondo tumore più diffuso in Italia, dopo quello al seno.
PERCHE' LO SCREENING PER IL TUMORE
DEL COLON-RETTO SALVA LA VITA?
ESSERE TEMPESTIVI FA LA DIFFERENZA
I gastroenterologi rimarcano da tempo l'importanza di non posticipare l'appuntamento con lo screening del tumore del colon-retto. Il punto di partenza del loro ragionamento è il seguente. Sia procrastinando la ricerca del sangue occulto nelle feci sia dilatando i tempi tra questa e l'eventuale colonscopia, le chance di mettere alle spalle la malattia si riducono. L'affermazione poggia le basi sulle conclusioni di diversi studi. Il più consolidato è un lavoro condotto dai ricercatori del Registro Tumori della Regione Veneto nel 2015 e pubblicato sulla rivista scientifica Gut. Analizzando la relazione fra il tempo intercorso fra la positività al test immunochimico fecale e la diagnosi emersa dalla colonscopia in oltre 154mila italiani, variabile tra un mese e oltre 180 giorni, gli autori rilevarono un'ampia forbice nel numero delle diagnosi totali di tumore del colon e di quelle in fase più avanzata. «È ormai dimostrato che lo screening per il tumore del colon-retto riduce il numero dei nuovi casi del 20 per cento e la mortalità di quasi un terzo», afferma Elisabetta Buscarini, direttore dell'unità operativa complessa di gastroenterologia ed endoscopia digestiva dell'ospedale Maggiore di Crema e presidente della Federazione Italiana Società Malattie dell'Apparato Digerente (FISMAD), che ha lanciato una campagna di sensibilizzazione per favorire la diffusione del test di screening.
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L'ADESIONE ALLO SCREENING IN ITALIA
Quasi una necessità, per i gastroenterologi, dal momento che in Italia l'adesione allo screening del tumore del colon-retto è stabile su valori di poco superiori al 40 per cento. Come documenta l'ultimo rapporto dell'Osservatorio Nazionale Screening, nel 2018 sono stati meno di sei milioni gli italiani (-300mila rispetto al 2017) che hanno ricevuto l'invito a effettuare la ricerca del sangue occulto nelle feci. Di questi, 2.5 milioni hanno dato seguito alla richiesta. Un dato, quello prossimo al 43 per cento, che è il frutto di una media nazionale che fa registrare un divario di quasi venti punti tra le Regioni del Nord e quelle del Mezzogiorno. Il gap è da ricondurre alla necessità di potenziare la sensibilizzazione nelle aree meno ricettive e di migliorare l'organizzazione dello screening a livello locale. Due numeri, su tutti, raccontano meglio di tutti le difficoltà che si registrano nelle Sud. In Calabria e in Puglia, rispettivamente, hanno aderito allo screening il 14 e l'11 per cento della popolazione avente diritto. E quasi la metà di queste persone ha dovuto provvedere da sè (privatamente) a un esame che invece dovrebbe essere garantito dal servizio sanitario nazionale. A ciò, su scala nazionale, occorre aggiungere che 1 persona su 5 che ha effettuato il test sulle feci non si è poi sottoposta alla colonscopia di approfondimento. Fermandosi, di fatto, a metà del percorso.
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L'IMPATTO DEL COVID-19 SULLO SCREENING
Considerando che l'adesione allo screening per il tumore del colon-retto partiva già indietro rispetto a quelli per la diagnosi precoce del tumore al seno (mammografia) e alla cervice uterina (Hpv test), si capisce perché la preoccupazione per quello che potrebbe essere l'impatto della pandemia di Covid-19 è a livelli di guardia. Dopo la prima ondata, durante la quale sono saltati oltre 1.4 milioni di esami diagnostici, gli esperti avevano stimato in circa 600 le mancate diagnosi di tumore del colon-retto. Poi, proprio mentre la ripresa iniziava a marciare a ritmi più sostenuti, è arrivata la seconda che sta determinando lo stop delle attività non urgenti. «Non possiamo permetterci un altro stop come quello della scorsa primavera», avverte Renato Cannizzaro, direttore della struttura di gastroenterologia oncologica sperimentale del Centro di Riferimento Oncologico di Aviano. «La diagnosi precoce del cancro del colon è cruciale. Diversamente, si andrà incontro a un aumento delle vittime provocate da questa malattia. Ecco perché è necessario mantenere attivi i programmi di screening, anche in questa fase della pandemia».
SCREENING TARDIVI E TUMORI PIU' AGGRESSIVI
Il motivo di tanta preoccupazione è sintetizzato con i numeri forniti dal modello elaborato da un gruppo di specialisti italiani e presentato attraverso le colonne della rivista Clinical Gastroenterology & Hepatology. Con l'obbiettivo di valutare quale impatto sulla salute possa essere determinato dal rinvio delle colonscopie di screening, i ricercatori hanno stimato quello che potrebbe essere l'incremento della mortalità legata al cancro del colon. Spiega Luigi Ricciardiello, responsabile del percorso diagnostico terapeutico del cancro colorettale al policlinico Sant’Orsola-Malpighi di Bologna. «Rimandando gli screening per un periodo minimo di sette mesi, rischiamo di rilevare un aumento delle diagnosi di tumore in stadio avanzato compreso tra il 3 e il 7 per cento». Ovvero: tra 1.300 e 3.000 diagnosi in più in un anno, di una malattia peraltro più difficile da curare. Di conseguenza, «si potrebbe registrare una riduzione fino a 12 punti percentuali del tasso di sopravvivenza a cinque anni».
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QUALE RUOLO PER IL MICROBIOTA?
La diagnosi precoce del tumore del colon passa dunque dalla ricerca del sangue occulto nelle feci e dalla successiva - se necessaria - colonscopia. Ma all'orizzonte ci sono diversi approcci. Uno di questi guarda al possibile ruolo del microbiota intestinale nel processo di formazione della malattia. A confermarlo è uno studio olandese, che ha portato i ricercatori a rilevare la presenza di alcune specie batteriche nelle feci di pazienti che, sottoposti a colonscopia, avevano un adenoma avanzato o una forma di cancro del colon. Da qui l'ipotesi dei camici bianchi dell’Università di Rotterdam: rilevare i batteri presenti nel campione raccolto per l'esame del sangue occulto in modo da impiegarli come possibili biomarcatori. Contribuendo all'infiammazione, alcuni microrganismi presenti nell'intestino potrebbero essere responsabili del processo di formazione del tumore.
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Fonti
Fabio Di Todaro
Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).