Ricerca e divulgazione scientifica: le due passioni di Tiziana Schioppa, che all’Università di Brescia studia una proteina coinvolta nell’infiammazione alla base della seconda neoplasia più diffusa
Il carcinoma del colon-retto è la seconda forma più comune di tumore, con oltre mezzo milione di morti all’anno e colpisce sia gli uomini che le donne. La percentuale di sopravvivenza a cinque anni è del 63%. Il tumore del colon è anche collegato al diffondersi di scorretti stili di vita, primi fra tutti una alimentazione troppa ricca di carni lavorate o carni rosse fresche. Le prime sono state inserite dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nell’elenco delle sostanze sicuramente cancerogene mentre le seconde - ovvero la carne di manzo, maiale, agnello, capretto e cavallo - sono considerate probabilmente cancerogene. Si tratta di alimenti che, se consumati in eccesso e per lungo tempo, possono infiammare il colon, aumentando il rischio di sviluppare un tumore. Per questi motivi, è particolarmente importante e di grande rilevanza sociale comprendere i meccanismi che regolano l'insorgenza e lo sviluppo della malattia. Tiziana Schioppa, biologa e dottore di ricerca, all’Università degli Studi di Brescia sta utilizzando un approccio innovativo per studiare alcuni aspetti della genesi del tumore del colo-retto.
Tiziana, raccontaci nei dettagli la tua ricerca.
«La mia ricerca vuole capire il ruolo del sistema immunitario nello sviluppo del tumore del colon. Sappiamo che l’intestino è normalmente popolato da cellule immunitarie che hanno il compito di difenderci dagli attacchi esterni. Studi recenti hanno dimostrato che alcune cellule del sistema immunitario, in particolare i leucociti infiltranti, hanno un ruolo fondamentale nello sviluppo del tumore del colon. Il reclutamento di cellule del sistema immunitario in siti tumorali è regolato dall'interazione tra piccole molecole chiamate chemochine e i loro recettori. Io voglio studiareil ruolo di un particolare recettore per chemochine chiamato CCRL2. CCRL2 si trova sulle cellule immunitarie e sulle cellule con funzione di barriera, come quelle epiteliali. Dati preliminari indicano che l'assenza di questo recettore riduce l'infiammazione e ostacola quindi la crescita tumorale».
Quali prospettive apre per le possibili applicazioni alla salute umana?
«La comprensione di questo nuovo meccanismo molecolare potrà aiutare a sviluppare nuove terapie per il trattamento del tumore al colon».
Sei mai stata all’estero e cosa ti ha lasciato questa esperienza?
«Dopo il dottorato sono stata quattro anni a Londra presso ilBartsCancerInstitute. È stata un’esperienza molto positiva sotto tutti gli aspetti sia lavorativi che personali. Sono nate grandi amicizie e anche collaborazioni professionali».
Ti è mancata l’Italia?
«L’Italia mi è mancata molto ma più per l’aspetto sociale: Londra è una grandissima città e non è sempre facile coltivare i rapporti personali.Il rientro in Italia, da punto di vista professionale, miha lasciato l’amaro in bocca. Il nostro è un grande paese ma la ricerca viene poco considerati: i ricercatori non hanno condizioni contrattuali paragonabili all’estero. Mentre ero a Londra avevo un contratto a tempo determinato nel quale veniva considerata la malattia, la gravidanza e altri aspetti non meno importanti. Qui invece si continua a lavorare grazie alle preziose borse di studio che arrivano da svariate associazioni, peròci si sente sempre eterni studenti».
In cosa secondo te la ricerca italiana dovrebbe migliorare?
«Un grosso problema è che nella struttura dei nostri gruppi di ricerca mancano le figure intermedie: lab manager, staff scientist e ricercatori senior, con 15 o 20 anni di esperienza, che non possono, non vogliono o non riescono a fare i capi laboratorio, ma che avrebbero un bagaglio di esperienza notevole da mettere al servizio della ricerca».
Cosa fai nel tempo libero?
«Ultimamente sto coltivando la passione per la divulgazione scientifica: mi appassiona mostrare ai più giovani, in particolare ai bambini, cosa vuol dire fare scienza e come sia bello conoscere e capire come funzionano le cose. Quest’anno sono stata responsabile di un laboratorio tenutosi presso la scuola bilingue BBschool di Scanzorosciate per bambini dai 6 ai 10 anni per Bergamo Scienza. È stata un’esperienza bellissima che spero ripeteremo anche il prossimo anno. Questo laboratorio ci ha anche permesso di iniziare una collaborazione tra la scuola e il Centre of the Cell di Londra.E ultimo ma non meno importante, mi dedico a mio marito (siamo insieme da ben 21 anni) e ai miei bambini: Sara, sei anni, e Michele, tre».
Perché hai scelto di intraprendere la strada della ricerca?
«Ho sempre sognato, fin da bambina, di fare il medico. Una volta diplomata ho fatto il test per entrare a medicina ma sfortunatamente non è andata come programmato, però mi ha permesso di scoprire una nuova passione: la ricerca pura».
Come ti vedi fra dieci anni?
«Spero ancora in un laboratorio di ricerca ma non posso averne la certezza data la difficoltà ad avere fondi. Se posso fare questo lavoro è grazie ad associazioni come la Fondazione Veronesi che continua a sostenere economicamente i ricercatori».
Cosa avresti fatto se non avessi fatto il ricercatore?
«Sicuramente la cuoca o la sommelier. Adoro mangiare bene ma soprattutto cucinare. Ricercare nuovi abbinamenti e provare nuove ricette è un po’ come stare in laboratorio».
Qual è per te il senso profondo che ti spinge a fare ricerca ogni giorno?
«Sapere che quello che facciamo può aiutare molte persone e che può migliorare la vita di molti».
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Chiara Segré
Chiara Segré è biologa e dottore di ricerca in oncologia molecolare, con un master in giornalismo e comunicazione della scienza. Ha lavorato otto anni nella ricerca sul cancro e dal 2010 si occupa di divulgazione scientifica. Attualmente è Responsabile della Supervisione Scientifica della Fondazione Umberto Veronesi, oltre che scrittrice di libri per bambini e ragazzi.