Per un terzo degli adolescenti e dei giovani adulti che si sono ammalati di tumore i rapporti sociali sono più difficili rispetto ai coetanei sani. Il momento più critico è dopo la fine delle terapie
I bambini e gli adolescenti che s’ammalano di cancro guariscono sempre più spesso: rispettivamente nel 79 e nell’82 per cento dei casi. Nonostante ciò, però, molti di loro segnalano difficoltà nel recupero di una vita sociale paragonabile a quella dei coetanei sani: anche a distanza di anni dalla diagnosi. Una tendenza che si concretizza in una scarsa considerazione della propria identità, in difficoltà sul luogo di lavoro e nelle relazioni sociali.
Ammalarsi di cancro in adolescenza: una sfida senza paragoni
LA VITA DEI GIOVANI DOPO IL CANCRO
La notizia giunge da uno studio pubblicato sulle colonne di Cancer, la rivista dell’American Cancer Society. Oncologi e psicologi - dell’Università di Nijmegen (Olanda), del Michigan, del Texas e del Knight Cancer Institute di Portland - hanno indagato in maniera prospettica l’andamento delle relazioni sociali di 141 pazienti, seguiti in cinque strutture statunitensi, che al momento della diagnosi avevano un’età compresa tra 14 e 39 anni: dunque adolescenti o giovani adulti. Nei due anni di osservazione, gli specialisti hanno chiesto loro di completare un sondaggio in tre diversi momenti: alla diagnosi, dopo uno e dopo due anni. In tutti e tre i momenti di controllo, la condizione sociale è risultata inferiore rispetto a quella rilevata di norma nella popolazione sana. Qualche progresso è stato osservato tra la diagnosi e il successivo follow-up, ma dallo scoccare dei 24 mesi in avanti il divario rispetto ai coetanei sani s’è ampliato. Diverse le difficoltà avvertite dai pazienti: alcune riguardavano la percezione del proprio corpo, altre l’impatto della malattia sui propri risparmi. E ancora: da una condizione di stress psicologico più accentuata a una ridotta propensione a costruire relazioni di coppia e a pianificare la nascita di un figlio. Diverse condizioni di disagio risultate tanto più marcate quanto meno tempestivo era stato il supporto psicologico garantito a partire dalla diagnosi.
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L’IMPORTANZA DI PENSARE ALLA VITA DOPO LA MALATTIA
L’imperativo alla base rimane la cura della malattia. Ma dal momento che più i pazienti sono giovani, in linea di massima, maggiori sono le chance di sopravvivenza, è necessario pure considerare la prospettiva di vita dopo la malattia. I ricercatori hanno notato che, tra i più giovani, chi era riuscito a frequentare la scuola o l’università durante le terapie aveva avvertito meno problemi dopo. È stata una conferma, perché è ormai opinione diffusa che il mantenimento di uno stile di vita quanto più prossimo a quello normale consente al paziente di avvertire meno la differenza rispetto al passato. Ipotesi confermata dalle testimonianze dirette
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LE TESTIMONIANZE DEGLI EX PAZIENTI
Quanto emerso dallo studio trova in effetti conferma nelle parole di Aldo Boccuni, 37 anni, che appena maggiorenne scoprì di avere un sarcoma di Ewing. «La mia vita è stata condizionata dalla malattia sul piano fisico e su quello delle scelte, personali e professionali. L'operazione è stata molto invasiva e i diciotto mesi di chemioterapia hanno modificato irrimediabilmente il corpo. Dopodiché ho imparato ad apprezzare di più la vita, cercando di viverla al meglio». Parole che trovano conferma nei pensieri di Giulia Sacchi, 32 anni, a cui a 25 fu diagnosticato un linfoma non Hodgkin. «Il tumore cambia le priorità, ma durante le terapie ho avuto la fortuna di non essere costretta a rinunciare alla mia vita. Nei sei mesi di cure stavo scrivendo la tesi e non mi fermai, anche per la buona tolleranza della chemio e della radioterapia. Gli amici e i parenti rimasero al mio fianco. Qualcosa, tutt’al più, è cambiato dopo: soprattutto nell’instaurare nuove relazioni. All’inizio non sai mai se raccontare subito o meno quanto ti è accaduto. Non siamo mai la nostra malattia, ma è inevitabile che serva un po’ di tempo per sentirsi davvero guariti». I ricercatori hanno notato che il periodo di massima criticità non coincide con la fase di cure, bensì con quella subito successiva. «Nel mio caso la fase che ha seguito la fine delle terapie è stata in crescendo, ma mi rendo conto che ogni caso clinico faccia storia a sé - dichiara Marcello Scapati, avvocato di 30 anni, operato un anno e mezzo fa per rimuovere un tumore al testicolo -. Dopo le cure sono uscito ogni sera, almeno per due settimane. Eravamo a fine settembre e avevo ripreso a lavorare in studio già da dieci giorni. La mia vita è cambiata? Sì. Se prima avevo paura di un esame o di una causa persa, adesso ho capito che nulla conta più della salute».
Fabio Di Todaro
Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).