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I nostri ricercatori
Chiara Miriam Maddalena
pubblicato il 09-03-2020

Nuovi farmaci per curare la leucemia linfoblastica acuta a cellule T



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Claudia Sorrentino ci parla del suo progetto di ricerca per la cura della leucemia linfoblastica acuta a cellule T, un tumore del sangue che prende origine dai linfociti T

 Nuovi farmaci per curare la leucemia linfoblastica acuta a cellule T

Oggi circa l'80% dei bambini affetto da leucemia linfoblastica acuta a cellule T viene curato grazie alle chemioterapie esistenti. Nei restanti casi, tuttavia, la terapia convenzionale si dimostra inefficace e la prognosi rimane sfavorevole.


Due geni importanti per lo sviluppo tumorale della leucemia linfoblastica acuta sono SERCA e NOTCH1, e sono strettamente correlati tra loro. Il gene SERCA contiene le informazioni per produrre una pompa di membrana (una proteina che trasporta molecole dentro e fuori la cellula) che è fondamentale per il corretto funzionamento del recettore Notch1. Se si inibisce la funzionalità di Notch1, si induce l’arresto della proliferazione delle cellule leucemiche umane. SERCA - e indirettamente Notch1 - sono quindi due bersagli terapeutici molto importanti nella leucemia linfoblastica acuta. Ma le attuali molecole conosciute, in grado di inibire le funzioni della pompa SERCA, sono troppo tossiche per l’uso clinico.


Occorre dunque sviluppare farmaci con una migliore tollerabilità: questo è l’obiettivo di Claudia Sorrentino, ricercatrice dell’Università degli Studi di Parma, che porterà avanti il suo progetto grazie al sostegno di una borsa di ricerca di Fondazione Umberto Veronesi.

 

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Claudia, raccontaci il progetto del quale ti occuperai nel 2020.

«Le leucemie linfoblastiche acute rappresentano il 25% del totale delle diagnosi oncologiche pediatriche, e le leucemie linfoblastiche acute a cellule T (T-ALL) compongono circa un quarto di questi casi. Sebbene circa l'80% dei bambini affetto da leucemia linfoblastica acuta a cellule T sia attualmente curato con la chemioterapia, la prognosi rimane sfavorevole per i pazienti in cui la terapia convenzionale fallisce».

Cosa è possibile fare, in questi casi?

«Il nostro progetto si concentra su due geni, SERCA e NOTCH1; quest’ultimo è frequentemente mutato nei tumori e in particolare nelle leucemie. Grazie ad alcuni studi abbiamo dimostrato che le attività di SERCA e Notch1 sono collegate: se si usano dei farmaci inibitori di SERCA, si compromette la maturazione e l'attività del recettore Notch1 mutato, e si induce l'arresto della proliferazione nelle cellule leucemiche umane. Queste molecole sono però tossiche, motivo per cui vogliamo sviluppare nuovi inibitori di SERCA con un diverso meccanismo di azione e una migliore tollerabilità».

Dunque vorreste utilizzare queste conoscenze molecolari per nuove applicazioni cliniche, giusto?

«Esattamente. L’obiettivo principale di questo progetto è di inibire indirettamente Notch1, sviluppando inibitori della pompa SERCA tollerabili da un punto di vista clinico. In particolare, mi occuperò di studiare l'attività di due nuovi inibitori della pompa SERCA e di valutare il loro potenziale come futuri farmaci».

 

Raccontaci di te. Sei mai stata all’estero per un’esperienza di ricerca?

«Sì, ho avuto l’opportunità di svolgere un anno del mio dottorato di ricerca al Cancer Center della Louisiana State University a New Orleans. È stata un’esperienza unica sia a livello personale sia lavorativo. Imparare a confrontarsi e a discutere di scienza in un contesto multietnico non può far altro che arricchirti. Durante questo anno che ho capito davvero che la ricerca è condivisione».

 

Cosa ti ha spinta ad andare?

«Il mio progetto aveva un punto in comune con la linea di ricerca di questo laboratorio negli Stati Uniti. Sono partita con obiettivi ben precisi e ho lavorato con un team davvero eccezionale».

 

In questo periodo in cui sei stata lontana, hai sofferto la mancanza di casa?

«Non ho avuto il tempo di sentire la mancanza di casa perché un anno è davvero volato. È stato ricco di cose nuove da imparare, di amicizie speciali, di situazioni ed esperienze uniche. Ma sarebbe stato troppo semplice continuare negli Stati Uniti, la sfida è rimanere in Italia».

 

Ripensando al tuo percorso, Claudia, qual è un momento della tua vita professionale che vorresti incorniciare?

«In realtà penso a due momenti speciali. Ricorderò per sempre il momento in cui ho ricevuto la comunicazione dell’assegnazione della borsa di studio finanziata da Fondazione Umberto Veronesi. La prima persona che ho avvisato è stata il mio professore, perché anche lui, in passato, è stato finanziato dalla Fondazione Umberto Veronesi e nessuno poteva condividere meglio questa gioia. Un altro momento importante che conserverò per sempre ricordi è stata la partecipazione come speaker a un congresso internazionale in Brasile. Poter parlare e discutere del proprio lavoro con scienziati provenienti da tutto il mondo è un’emozione indimenticabile».

 

Dove ti vedi fra dieci anni?

«Non importa tanto dove sarò tra dieci anni. Spero di essere circondata da persone entusiaste, positive e generose nella vita e nel lavoro».

 

Se ti dico scienza e ricerca, cosa ti viene in mente?

«Mi vengono in mente tante cose, ma tutte con un comune denominatore: l’amore per il prossimo. Per me fare ricerca è l’unico modo per fare un piccolo passo in avanti nella conoscenza di un problema e poter aiutare nel prossimo futuro chi ne hanno bisogno».

 

Descriviti con tre pregi e tre difetti.

«Mi reputo una persona organizzata, determinata, paziente. Allo stesso tempo sono però ansiosa, critica e testarda».

 

La cosa che più ti fa arrabbiare.

«Non sopporto il relazionarmi con persone o colleghi saccenti e presuntuosi. Fare ricerca significa mettere in dubbio tutto. Le persone che pensano di possedere verità assolute sbagliano in partenza».

 

Claudia, cosa vorresti dire alle persone che scelgono di donare a sostegno della ricerca scientifica?

«Vorrei ringraziarli. Donare alla ricerca scientifica significa dare fiducia a persone come me che fanno del proprio lavoro il proprio scopo vita. Direi a quelle persone di continuare ad avere fiducia e aspettare pazientemente. Magari i risultati non saranno immediati, magari ci saranno momenti di sconforto o di delusione. Ma la ricerca è così. Bisogna essere molto pazienti e passo dopo passo vinceremo la battaglia più dura che stiamo combattendo. Quindi grazie a voi che avete scelto di darci fiducia».

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