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Neuroscienze
Alessandro Vitale
pubblicato il 12-06-2020

«Mia mamma e il Covid-19»: il racconto di una ricercatrice



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Elena Zenaro racconta i giorni difficili al fianco dei genitori col Covid-19. E ricorda quanto sia importante sostenere la ricerca, anche ora che il peggio sembra alle spalle

«Mia mamma e il Covid-19»: il racconto di una ricercatrice

«Quando è stata l’ultima volta che hai pianto?». «Poche settimane fa: mia mamma è stata in fin di vita a causa del Covid-19». Queste le parole rilasciate a Chiara Miriam Maddalena da Elena Zenaro, ricercatrice di Fondazione Umberto Veronesi, nell’intervista dedicatale per descrivere la sua attività di studio rivolta alla malattia da Alzheimer. La biotecnologa, che lavora all’Università di Verona, ha avuto modo di guardare negli occhi la malattia provocata dal coronavirus. Ad ammalarsi, a marzo, è stata sua mamma Giuliana, 76 anni. L’epilogo - oggi lo si può mettere nero su bianco - è stato lieto. Ma i momenti critici non sono mancati. Quello di Elena è il racconto di chi ha dovuto far leva sulla sua parte più razionale, per non lasciarsi trasportare dal dolore dei giorni più difficili vissuti nelle regioni del Nord Italia.

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IL RACCONTO DEI GIORNI PEGGIORI

«Quando mia mamma ha mostrato i primi sintomi del Covid-19, eravamo a casa. In pochi giorni, l’ho vista aggravarsi: aveva la febbre alta, la tosse e un forte affaticamento». Da qui la chiamata al medico di base che, dopo avere registrato il peggioramento, capisce subito che non c’è tempo da perdere. La polmonite è già in atto. Giuliana, nell’arco di poche ore, si ritrova in ospedale. Una scelta tempestiva, perché la sua malattia richiede il supporto dell’ossigeno. Dopo il ricovero, però, la situazione si fa più confusa. «Passati i primi cinque giorni, non siamo riusciti più ad avere alcuna informazione dall’ospedale - ricorda Elena, 42 anni: sposata con due figlie -. Il personale era molto impegnato, le chiamate venivano rimbalzate da un reparto all’altro. A un certo punto sono riuscita a contattare un medico che ci ha dato notizie di mia mamma e del reparto in cui era ricoverata». Il caso ha voluto che, al momento dell’ingresso in pronto soccorso, la signora Giuliana avesse con sé il cellulare. Così, passati i momenti più duri, «siamo riusciti a mantenerci in contatto con lei, nonostante la mascherina per l’ossigeno e la grande fatica nel parlare».


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COVID-19 ANCHE PER IL PAPA'

Durante il ricovero di Giuliana, Elena rimane in isolamento fiduciario con la sua famiglia, oltre che in attesa. C’è però anche un padre a cui pensare, che nel frattempo manifesta i sintomi del Covid-19. Momenti «molto difficili», li ricorda oggi la ricercatrice, perché «dopo il ricovero della mamma, eravamo preoccupati anche per le condizioni di papà. Così, in pochi minuti, con mia sorella abbiamo deciso che fosse lei a fargli compagnia durante la quarantena, per ogni evenienza». Il timore che l’uomo si aggravasse al punto da richiedere il ricovero è stato concreto. «Eravamo preoccupate per via dell'età (79 anni, ndr) e per il fatto che mio padre è cardiopatico. Fortunatamente, nonostante il rischio sulla carta fosse maggiore, la sua malattia è stata più lieve».


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Il decorso di Giuliana è invece più lungo. E, con il passare dei giorni, ai sintomi respiratori si aggiungono anche i problemi legati alla coagulazione del sangue, determinati da una risposta infiammatoria fuori controllo. Un quadro clinico comune a tanti pazienti della prima ora. «Le sue cure sono state intense - ricorda Elena, attraverso il Magazine di Fondazione Umberto Veronesi -. Oltre all’idrossiclorochina, a mia madre è stata somministrata anche l’eparina, per fluidificare il sangue ed evitare la formazione di trombi. Ricordo che proprio in quei giorni, sulla stampa, si cominciava a parlare dei problemi cardiocircolatori legati all’infezione da Sars-CoV-2». Poi, fortunatamente, dall’ospedale arrivano buone notizie. Le condizioni di mamma Giuliana migliorano. Poco più di due settimane di ricovero sono sufficienti: giunge così il momento delle dimissioni. «Stanca, debilitata, ma finalmente era a casa. In quel momento mia mamma non si era ancora negativizzata, così abbiamo continuato la quarantena a casa e atteso che si rimettesse in forze». Dopo due tamponi negativi, il tutto si è concluso per il meglio, quaranta giorni dopo i primi sintomi e il ricovero.

LA RICERCA DURANTE IL LOCKDOWN

Nonostante la situazione familiare difficile e l’isolamento, il lavoro di ricerca e studio di Elena non si è fermato. «Per una coincidenza fortunata, in quel periodo ho avuto la necessità di scrivere diversi articoli, dopo aver lavorato molto in laboratorio nei mesi precedenti. Di conseguenza, la mia attività non ha risentito particolarmente della pandemia, nonostante l’impossibilità di accedere al bancone o agli stabulari. Anche adesso, d’altronde, la situazione è un po’ particolare: gli ingressi in laboratorio sono contingentati e non c’è ancora la possibilità di condividere gli spazi con tutti i colleghi». Non soltanto Alzheimer, però. Le ore trascorse davanti al pc sono servite per tenersi aggiornata sulle questioni più urgenti. E dunque anzitutto sul Covid-19. «Quel che posso dire, come ricercatrice, è che la conoscenza di questa malattia è ancora all’inizio». 


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LA RICERCA CHE SERVE SUL COVID-19

Motivo per cui, per farsi trovare pronti in caso di una seconda ondata, «dobbiamo continuare a studiarla, serve saperne assolutamente di più». Condividendo questa necessità, Fondazione Umberto Veronesi ha deciso di intervenire a sostegno della ricerca rivolta al Covid-19. Sei i progetti finanziati (scopri quali sono) attraverso il bando condiviso con Regione Lombardia e Fondazione Cariplo. «C’è bisogno di fare tanta ricerca in questo ambito - conclude Elena Zenaro -. In queste ultime settimane sono usciti molti articoli su Sars-Cov-2, ma alcuni di questi sono stati anche ritirati dopo aver scoperto diversi problemi metodologici nella conduzione degli studi. Dal punto di vista clinico, i medici sono più organizzati rispetto alle prime settimane. Ma il dato di fatto è uno: non sappiamo ancora quali siano le terapie migliori per il Covid-19. Maggiore sarà la conoscenza del virus, meglio riusciremo a intervenire nel caso di un nuovo aumento dei casi gravi».



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