Studiare il metabolismo delle cellule tumorali per restituire efficacia ai farmaci nei casi avanzati del cancro al fegato. La ricerca di Silvia Pedretti

Il carcinoma epatocellulare, la forma più comune cancro al fegato, rappresenta una sfida clinica soprattutto negli stadi avanzati, quando le armi terapeutiche si fanno scarse e spesso inefficaci. Tra i pochi farmaci disponibili c’è il sorafenib e purtroppo alcune cellule tumorali riescono ad aggirare il suo meccanismo, sviluppando una resistenza. Capire come e perché accade è l’obiettivo del lavoro di Silvia Pedretti, ricercatrice all’Istituto Europeo di Oncologia, e vincitrice di un finanziamento di ricerca di Fondazione Veronesi. Il suo progetto si concentra sullo studio del metabolismo cellulare e sulla ferroptosi, un processo di morte programmata delle cellule e chiave per l’azione del sorafenib, in modo da migliorare l’efficacia dei trattamenti attualmente disponibili.
Silvia, perché proprio il carcinoma epatocellulare? Cosa ti ha spinta a sceglierlo come oggetto di studio?
Quando ho iniziato il post-dottorato, mi sono resa conto che per questo tipo di tumore, in fase avanzata, le opzioni terapeutiche sono poche e spesso inefficaci. Ho approfondito, infatti, il meccanismo del sorafenib, una molecola capace di rallentare la crescita tumorale interagendo con processi cellulari fondamentali, come il metabolismo e la ferroptosi. Mi sono accorta, tuttavia, che l'efficacia di questo farmaco è ostacolata dalla resistenza che molte cellule sviluppano. È un problema urgente perché molte persone muoiono di questo tipo tumore, e da lì è nato tutto.
Quindi la tua ricerca ha l'obiettivo di capire come il tumore diventa resistente?
Esatto. Stiamo studiando come le cellule tumorali modificano il loro metabolismo per sopravvivere al trattamento. In particolare, mi interessa come viene rimodellato il metabolismo dei fosfolipidi, perché sono cruciali per la ferroptosi, una forma di morte cellulare che colpisce i lipidi di membrana. Purtroppo molte cellule tumorali riescono a evitarla, quindi, se capiamo questi meccanismi, possiamo individuare nuovi bersagli terapeutici e magari migliorare le terapie combinate.
Durante quest’anno, dove ti immagini di arrivare con la tua ricerca?
I risultati preliminari sono stati promettenti e hanno supportato le nostre ipotesi. Quest’anno voglio sfruttare le mie competenze in biochimica per investigare i possibili percorsi metabolici alternativi, non convenzionali, che potrebbero avere un ruolo nello sviluppo della resistenza ai farmaci.
Hai mai pensato di trasferirti all’estero per proseguire il tuo lavoro?
Lo avevo pianificato, ma la pandemia ha cambiato le carte in tavola. Mi piacerebbe fare un’esperienza breve fuori, per imparare nuove tecniche. Ma non credo riuscirei a vivere a lungo lontano dall’Italia: qui ho radici forti che vanno oltre l’ambito lavorativo. Anche se in Italia fare ricerca richiede uno sforzo maggiore rispetto ad altri Paesi, penso che anche qui la si possa fare in modo competitivo.
Silvia, qual è stato il momento esatto in cui hai capito che la scienza sarebbe stata la tua strada?
La prima volta che sono entrata in un laboratorio di scienze al liceo e ho eseguito una semplice estrazione del DNA. Quando ho visto con i miei occhi l’elica di DNA fluttuare nella provetta, qualcosa dentro di me è scattato. Era come se, per la prima volta, un concetto che fino ad allora esisteva solo nei libri prendesse forma nella realtà. In quel momento ho capito: volevo studiare la scienza, fare ricerca e contribuire a scoprire qualcosa di nuovo.
Cos’è per te la ricerca?
Recentemente mi è capitato di vedere il mio nipotino giocare con il microscopio, affascinato, pieno di domande. È stato un momento emozionante e mi sono commossa. Perché per me la scienza è scoperta, possibilità di esplorare l’ignoto. C’è sempre qualcosa che ancora non conosciamo e che aspetta di essere investigato. Ci sono momenti belli, che sono quelli in cui gli esperimenti riescono, ma anche momenti difficili: la ricerca è fatta di idee e ipotesi da testare, ma nella maggior parte dei casi i risultati non sono quelli sperati, e questo può essere frustrante. Tuttavia, ogni volta che si trova il tassello giusto, quello che porta un passo più vicino alla soluzione del problema, la soddisfazione è immensa. È quella scintilla che mi spinge ad andare avanti.
Cosa ti motiva nell’andare ogni giorno in laboratorio?
Per prima cosa i miei genitori: loro mi hanno insegnato che senza impegno e determinazione non si raggiunge nessun obiettivo. È grazie a loro che ho imparato a non mollare e a portare a termine ogni progetto con tenacia.
Inoltre, quando una persona cara si ammala, si spera sempre che esista una cura miracolosa in grado di salvarla. Ma a volte quella cura ancora non esiste, e senza la ricerca non potrà mai esistere. Mi piace pensare che il mio lavoro, per quanto piccolo, possa contribuire un giorno a qualcosa di grande, qualcosa che possa fare davvero la differenza per la salute delle persone.
Se ti chiedono cosa fai nella vita, cosa rispondi?
Cerco di spiegare cosa significa davvero “fare ricerca”. Tutto parte da un problema: il ricercatore lo affronta con le proprie conoscenze, cerca di capirne le cause e di trovare una soluzione, spesso con l’obiettivo di migliorare una condizione patologica. È un percorso lungo, fatto di tentativi e dedizione, ma ogni piccolo avanzamento è un passo verso qualcosa di più grande. Spesso manca la conoscenza su cosa significhi realmente fare ricerca. Chi mi circonda comprende l’importanza del mio lavoro, ma a livello generale servirebbe più informazione.
Spero di continuare a fare a questo lavoro e il mio sogno è studiare il cancro con approcci sempre nuovi e innovativi.
Oltre al lavoro, Silvia come passa le sue giornate?
Ho una vita normalissima. Amo fare sport e mi piace passare del tempo con i miei amici e la mia famiglia, senza pensieri e magari cantando al karaoke.
Perché è importante sostenere la ricerca?
Senza il supporto della Fondazione Veronesi, non avrei potuto proseguire il mio percorso di ricerca. I fondi destinati alla ricerca sono essenziali perché, per quanto la passione ci guidi, non possiamo vivere solo di quella: anche noi ricercatori abbiamo spese, proprio come qualsiasi altro lavoratore. Spesso mi sveglio ancora prima che suoni la sveglia, con la voglia di andare in laboratorio e con la speranza di ottenere un risultato che potrebbe rappresentare una svolta. Senza questi finanziamenti, sarei stata costretta ad abbandonare tutto e a cambiare strada, rinunciando alla mia più grande passione.
C’è qualcosa che vorresti dire a chi decide di donare per la ricerca?
Grazie, di cuore! Il vostro contributo è fondamentale. Ogni donazione ci permette di portare avanti i nostri progetti, di approfondire le nostre ricerche e di cercare soluzioni che possano davvero fare la differenza. Il nostro impegno è massimo, e il vostro supporto ci dà la forza di continuare.