I nostri anziani sono lasciati più soli rispetto ad altre nazioni europee. Aumentano i casi di suicidio. Il quadro della situazione nei dati Eurostat
Sono meno colpiti dall’Alzheimer rispetto al passato, ma soffrono moltissimo di solitudine tanto da arrivare a togliersi la vita. E’ la condizione degli anziani in Italia, che sarebbe un “paese per vecchi” all’apparenza, avendo una popolazione sempre più in età, ma si rivela, all’esame statistico, solamente un “paese di vecchi” molto più mal trattati che negli altri stati europei. Si è parlato di “Italia maglia nera in Europa” a un recente congresso a Firenze di Psicogeriatria dove, con un qualche stupore, si è appreso che da noi il tasso di solitudine per i 70-80enni è il doppio rispetto ai paesi anglosassoni e del Nord, con quanti non hanno nessuno a cui chiedere aiuto che sono il 14 per cento e quanti non hanno nessuno a cui raccontare fatti personali che raggiungono il 12 per cento a fronte di una media europea del 6,1 per cento. A testimoniarlo sono i dati Eurostat. Una doccia fredda per quanti pensavano che in Italia la famiglia, pur scassata, tenesse meglio che altrove e che da noi fossero più resistenti i sentimenti di accoglienza e inclusione.
LA DEPRESSIONE ALIMENTA VARIE MALATTIE FISICHE
La solitudine, oltre tutto, non è solo un problema personale e sociale, diventa un fatto clinico poiché si associa a un aumento di depressione, disturbi del sonno, demenza, malattie cardiovascolari. E non si può non metterla in relazione anche con la tentazione di togliersi la vita. A indicare i numeri di questa tragedia è il professor Diego De Leo, psichiatra, presidente dell’Associazione italiana di Psicogeriatria ed esperto di livello internazionale sul tema del suicidio: «Nei paesi anglosassoni i vecchi che decidono di morire sono la metà che da noi. In Italia sono 1.400 all’anno. Le cifre: gli italiani sopra i 65 anni sono poco più del 20 per cento della popolazione generale, ma nelle statistiche dei suicidi occupano il 38 per cento dei posti».
I PREGIUDIZI DELL’AGEISMO: SE SEI VECCHIO SEI INUTILE
Oltre che la solitudine in cui vengono lasciati, si incolpa anche l’ageismo (da age: età in francese e inglese), vale a dire i pregiudizi sull’età avanzata che fanno sentire gli anziani inutili e pure un peso per tutti, con le discriminazioni che ne conseguono. E’ stato ricordato che durante la pandemia i posti limitati nelle terapie intensive venivano dati di preferenza ai più giovani, con maggiori probabilità di guarire e vite “più necessarie”. Nessuna contestazione, ma il messaggio uscito da questa esperienza era ben chiaro e si è stampato nella mente di chi di decine di anni ne hanno da 6 a 7 in su.
“EPIDEMIA DI SOLITUDINE” NELL’OCCIDENTE
De Leo parla, e non è il solo, di “epidemia di solitudine” nel mondo occidentale, dove il 30 per cento soffre di solitudine cronica e il 10 per cento è afflitto da una solitudine molto severa. Quanto all’Alzheimer, cui si accennava all’inizio, è stata constatata una minore incidenza: gli ottantenni di oggi sono meno colpiti rispetto al passato. Questo, si pensa, perché essendosi diffusa la consapevolezza dei fattori di rischi, le persone si sono impegnate di più in una vita sana ritardando, perciò, o forse annullando la comparsa della malattia. In totale ci sono in Italia 1,1 – 1,2 milioni di persone affette da demenza, di cui il 60-80 per cento è costituito da Alzheimer, circa 800 mila persone. Ma se l’incidenza, ogni quante persone si ammalano, è in diminuzione, la somma finale, la prevalenza, è cresciuta perché a questo portano l’invecchiamento della popolazione e l’aumento del numero dei vecchi.
IL FEGATO UN FILTRO A VOLTE BLOCCATO
Il professor Alessandro Padovani, Direttore della Clinica di Neurologia e prorettore alla Ricerca dell’Università di Brescia, fa l’esempio del suo territorio: ci sono 17 mila pazienti affetti da Alzheimer, con la presenza della malattia che si è ridotta in quanti hanno tra i 70 e 80 anni, comparendo in età più avanzata rispetto al passato. «I fattori di rischio che stanno emergendo per la malattia di Alzheimer sono il diabete o la cosiddetta insulinoresistenza della sindrome metabolica attraverso l’infiammazione sistemica, che favoriscono l’accumulo di beta-amiloide da cui poi deriverebbe il processo neurodegenerativo – sottolinea il professor Padovani – Altri due elementi sembrerebbero correlati all’infiammazione sistemica: l’insufficienza epatica non alcolica, spesso legata all’obesità e ai disturbi dell’alimentazione, e la steatosi epatica alcolica, spesso aggravata dal consumo di alcol anche in età avanzata. Il fegato, infatti, svolgerebbe una funzione di filtro o di eliminazione dell’amiloide circolante. Ancora non ci sono dimostrazioni scientifiche, ma è un’ipotesi accreditata su cui diversi gruppi stanno lavorando».
GUAI A DORMIRE MENO DI 6 ORE
Continua il professore: «Un terzo aspetto che emerge sull’individuazione dei fattori di rischio è legato ai disturbi del sonno: un sonno disturbato, inferiore alle 6 ore, aumenta il rischio di decadimento cognitivo; da recenti studi emerge che alcuni farmaci che agiscono sull’orexina, un neurotrasmettitore che influenza sonno, umore e appetito, non solo migliorano il sonno e le prestazioni cognitive, ma agiscono sui biomarcatori correlati allo sviluppo della malattia di Alzheimer, la proteina tau e tau fosforilata riducendole». La ricerca scientifica negli ultimi anni si è concentrata sul fatto che le prime alterazioni neuropatologiche si rilevano già 19 anni prima dell’insorgenza dei sintomi veri e propri, con un aumento del tasso di proteina beta-amiloide a cui segue l’alterazione della proteina tau. In generale si consiglia un approccio preventivo basato su socializzazione, alimentazione corretta, attività fisica. Una vita sana e attiva.
Serena Zoli
Giornalista professionista, per 30 anni al Corriere della Sera, autrice del libro “E liberaci dal male oscuro - Che cos’è la depressione e come se ne esce”.