Il lockdown dettato dal Covid-19 ha determinato il peggioramento dei disturbi comportamentali nei pazienti affetti da una demenza
Il lockdown, nel picco della pandemia di Covid-19, ha aperto la strada a un’altra emergenza, oltre a quella legata ai contagi. Al di là dei pazienti oncologici, di cui abbiamo parlato a più riprese, tra i più penalizzati ci sono stati i pazienti alle prese con una demenza. E, naturalmente, le loro famiglie. Oltre al danno provocato dall’ingresso del virus nelle Residenze sanitarie assistenziali (Rsa), gli anziani alle prese con un deficit cognitivo hanno visto peggiorare anche questo problema. Il motivo? L’incremento dei sintomi neuropsichiatrici spesso collegati: dall’ansia all’aggressività, dall’apatia all’alterazione della personalità e ai disturbi dell’umore. Un problema che, leggendo le conclusioni di uno studio pubblicato sulla rivista Frontiers in Psychiatry, ha riguardato oltre 6 pazienti su 10. Più alta la quota di familiari in difficoltà, con un 65 per cento degli intervistati che si è scoperto «più vulnerabile» e affetto da «evidenti sintomi di stress».
LE MALATTIE NEURODEGENERATIVE
POSSONO ESSERE PREVENUTE?
LA PANDEMIA «SILENTE»
Il dato emerge da un’indagine condotta dal gruppo di studio sul Covid-19 della Società Italiana di Neurologia per le Demenze (SINdem) intervistando quasi cinquemila caregiver di pazienti affetti da diverse forme di demenza: dalla più comune malattia di Alzheimer alle demenze frontotemporali, da quelle con corpi di Lewy alle demenze cerebrovascolari. Obbiettivo: indagare le variazioni dei disturbi neuropsichiatrici registrate da questi malati, nel corso di un periodo critico ed eccezionale come il lungo isolamento in cui abbiamo vissuto per oltre due mesi. In partenza, considerando quanto accaduto alle persone rimaste confinate nel corso delle recenti epidemie di Sars e Mers e sulla base dell’esperienza clinica vissuta tra l’inverno e la primavera scorsi, gli esperti temevano di poter registrare una recrudescenza di disturbi psicologici e comportamentali. Ipotesi ora confermata dai numeri, che giustificano le paure degli addetti ai lavori: «C’è una pandemia più silente che rischia di esplodere: è quella delle persone alle prese con una demenza».
Alzheimer: farmaci flop, ora l'obbiettivo è la diagnosi precoce
IN AUMENTO AGITAZIONE, DEPRESSIONE E ANSIA
Il tipo di disturbo neuropsichiatrico prevalente è risultato influenzato da variabili tra cui la forma di demenza e la sua severità. Nonché dal genere sessuale, con le donne più penalizzate. In linea generale, però, i sintomi riportati più di frequente sono stati l’irritabilità (40%), l’agitazione (31%), l’apatia (35%), l’ansia (29%) e la depressione (25%). «In oltre un quarto dei casi - analizza Amalia Bruni, direttore del Centro Regionale di Neurogenetica di Lamezia Terme (Catanzaro) e presidente della SINdem - questa nuova condizione ha richiesto la modifica del trattamento farmacologico». Aggiunge Anna Chiara Cagnin, neurologa e docente all'università di Padova. «Gli effetti dell’isolamento indotto dal lockdown, con i cambiamenti della routine quotidiana e la riduzione degli stimoli emotivi, sociali e fisici, hanno rappresentato un detonatore per l’incremento dei disturbi neuropsichiatrici tra questi pazienti - afferma l'esperta, prima firma dello studio -. Partendo da simili dati, è il caso di considerare una riorganizzazione dei servizi assistenziali: con un monitoraggio e un supporto continuo e per questi pazienti. Anche a distanza, se necessario».
COVID-19: IN ITALIA 1 VITTIMA SU 5 CON L'ALZHEIMER
Il lavoro dei ricercatori italiani conferma quello che sono state le ricadute meno visibili - ma non per questo meno rilevanti - del Covid-19 sugli anziani affetti da demenza. Più evidente, invece, rimane agli occhi di tutti l'impatto diretto della pandemia. Secondo un'indagine condotta dall’University College e dalla Scuola di Economia e Scienze Sociali di Londra, un quinto delle vittime italiane della pandemia conviveva già con una forma di decadimento cognitivo. A penalizzare queste persone, secondo gli esperti, sono state anzitutto le difficoltà incontrate nella comprensione e nell'adozione delle misure anti-contagio. Ovvero: il distanziamento sociale, il lavaggio frequente delle mani e l’utilizzo delle mascherine. A ciò occorre aggiungere che molti di questi pazienti, al di là del deficit cognitivo, avevano un'età avanzata e presentavano anche altri fattori di rischio (ipertensione) o malattie (cardiovascolari, diabete, Bpco) «svantaggiose» in caso di contagio. E che, nelle settimane più critiche, non è stato possibile garantire a tutti l'accesso alle terapie intensive. «La pandemia ha posto i sistemi sanitari sotto una pressione mai registrata prima - conclude Paola Barbarino, presidente dell'Alzheimer's Diseases International (ADI), in occasione della Giornata mondiale dedicata alla malattia -. Detto ciò, occorre prepararsi già da ora. In caso di una recrudescenza dei contagi, non possiamo permetterci che le persone con una demenza vengano poste in secondo piano, come accaduto finora».
Fonti
Fabio Di Todaro
Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).