Le donne incinte dopo aver avuto un disturbo alimentare sono a maggior rischio di complicanze. Ma avere un figlio è comunque possibile, a patto di «serrare» i controlli
Nessun divieto assoluto: affrontare una gravidanza dopo aver sofferto di un disturbo del comportamento alimentare è possibile. Ma per essere più sicuri di evitare complicanze, occorre serrare il calendario dei controlli. Una «supervisione» più frequente è necessaria per evitare che una donna che ha superato - o non ancora del tutto - l'anoressia o la bulimia vada incontro a complicanze quali un parto pretermine, la comparsa di microcefalia nel feto e (nella donna) una nausea molto accentuata nei primi mesi di gravidanza. Adottate queste accortezze, anche le ragazze che per un certo periodo hanno avuto un rapporto alterato con il cibo e con il proprio corpo possono coronare senza assilli il desiderio di diventare mamme.
Anoressia e bulimia: ci vuole tempo, ma si può guarire nella gran parte dei casi
I DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE
Realtà per oltre tre milioni di italiani, i disturbi del comportamento alimentare colpiscono perlopiù le donne: pari al 95 per cento dei pazienti. Per quanto i numeri non possano essere considerati troppo dettagliati, la bulimia (oltre 1.4 milioni di casi) e l'anoressia (almeno 750mila) sono le malattie più frequenti. Del novero fa parte anche il disturbo da alimentazione incontrollata (o binge eating disorder), oltre a una serie di condizioni meno frequenti e non ancora ben specificate. L'elevata diffusione nel sesso femminile e una prevalenza quasi assoluta in età fertile - secondo il Ministero della Salute, 8 casi su 10 si registrano tra i 15 e i 40 anni - ha fatto in modo che si indagasse anche l'impatto di queste malattie sulla salute riproduttiva delle donne. Soprattutto l'anoressia, infatti, può avere ripercussioni sulla fertilità. L'organismo, non considerando essenziale la funzionalità ovarica, tende a ridurre l'attività delle gonadi per mettere la poca energia disponibile al servizio degli organi vitali. Col tempo, una volta superata la fase acuta del disturbo, le chance di andare incontro a una gravidanza tornano però a crescere.
ANORESSIA E BULIMIA: QUALI I SEGNALI
A CUI PRESTARE ATTENZIONE?
GRAVIDANZA OK, CON QUALCHE PRECAUZIONE
Una volta raggiunto l'obbiettivo, è necessario porre maggiori attenzioni rispetto a quelle adottate in tutti gli altri casi. Come dimostra uno studio condotto su oltre 1.2 milioni di donne svedesi e pubblicato sulla rivista Jama Psychiatry, una mamma che ha affrontato un disturbo alimentare corre un rischio più alto di affrontare un evento avverso nel corso della gravidanza. La probabilità è accresciuta se l'anoressia o la bulimia sono «attive» - con una remissione parziale dei sintomi, che possono riacutizzarsi durante i nove mesi - nel corso della gestazione. Nelle donne alle prese con un disturbo alimentare, oltre alle complicanze citate, i ricercatori hanno riscontrato un aumento dei casi di anemia e di emorragia nelle settimane successive al concepimento. Diverse le possibili cause: dai deficit nutrizionali all'aumento dei livelli di cortisolo (l'ormone dello stress). «Queste donne devono essere considerate ad alto rischio - afferma Ängla Mantel, ginecologa ed epidemiologa del Karolinska Institutet (Solna) e prima firma della ricerca -. Gli operatori sanitari sono chiamati a sviluppare protocolli ad hoc per identificarle, soprattutto se il problema alimentare è alle spalle e rischia di essere sottovalutato». Al momento, non esistono linee guida specifiche. Secondo Stefano Erzegovesi, direttore del centro per i disturbi del comportamento alimentare dell'ospedale San Raffaele di Milano, «le donne con un disturbo in fase attiva dovrebbero essere visitate almeno una volta al mese dal ginecologo e dal nutrizionista e ogni due settimane dagli specialisti che si occupano dei disturbi alimentari». Avanti così, dall'inizio della gravidanza e fino al parto. Ma non solo.
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CONTROLLI ANCHE DOPO IL PARTO
I rischi maggiori sono correlati all'anoressia. Il monitoraggio, in simili situazioni, dovrebbe proseguire anche oltre. Questo perché, sebbene da qualche anno si parli di pregoressia per identificare la tendenza della donna incinta a seguire diete restrittive per la paura di prendere peso, «durante l'attesa una donna avverte una sorta di senso del dovere nei confronti del proprio figlio che la porta a rispettare quasi sempre le indicazioni dietetiche fornite dai medici», prosegue l'esperto. Tradotto: nei nove mesi, qualche chilo in più può diventare accettabile. Ma la «sfida» nei confronti del peso spesso si ripresenta dopo il parto. «Vedere il proprio corpo cambiato, insieme al possibile calo dell’umore tipico del post-partum, può far ripartire un meccanismo di evitamento nei confronti del cibo - conclude Erzegovesi, autore di un blog sul Magazine di Fondazione Umberto Veronesi -. Questo, oltre a costituire un rischio per la salute della donna, rappresenta un'insidia anche per il neonato. La perdita della montata lattea è infatti una delle prime conseguenze che si registra quando la dieta risulta carente».
Fonti
Fabio Di Todaro
Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).