Un anticorpo monoclonale «spegne» la risposta infiammatoria nei pazienti con linfoistiocitosi emofagocitica primaria in attesa del trapianto di staminali emopoietiche
La linfoistiocitosi emofagocitica primaria è una malattia rara. E, come tale, poco conosciuta. Rispetto a molte altre, però, è finita su tutti i giornali quasi due anni fa, quando si diffuse l'appello dei genitori del piccolo Alex, alla ricerca di un donatore di midollo osseo compatibile e in grado di garantire la sopravvivenza del proprio bambino. Alla fine, nonostante la grande generosità degli italiani che si sottoposero in massa agli esami di rito per verificare l'eventuale compatibilità genetica, a salvare la vita del piccolo paziente fu suo padre Paolo. Ma non solo, perché nei mesi più difficili per Alex, un farmaco sperimentale gli permise di presentarsi al trapianto nelle migliori condizioni. Si chiama Emapalumab la molecola salvavita che si appresta ad alimentare la speranza di altri bambini che, alla pari di Alex, sono in attesa di trovare un donatore compatibile di cellule staminali emopoietiche.
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LINFOISTIOCITOSI EMOFAGOCITICA PRIMARIA: DI COSA SI TRATTA
La linfoistiocitosi emofagocitica primaria è una malattia rara, ma potenzialmente fatale. Si manifesta perlopiù nel corso dell’infanzia, sebbene sia stata osservata in tutte le fasce d’età. Descritta per la prima volta nel 1939 da Bodley Scott e Robb Smith in quattro pazienti a cui era stata posta diagnosi di malattia di Hodgkin atipica, nel 1952 ne è stata prospettata l'origine familiare. Successivamente è stata riconosciuta come uno spettro eterogeneo di condizioni simili dal punto di vista clinico, ma differenti per origine. La malattia, causata da mutazioni di geni che determinano la proliferazione incontrollata delle cellule più grandi del nostro sistema immunitario (i linfociti T citotossici e le cellule natural killer), è caratterizzata da una risposta infiammatoria spropositata che, poco alla volta, determina un danno diffuso a organi e tessuti. Nello specifico, la linfoistiocitosi emofagocitica primaria si manifesta nella maggior parte dei casi nel primo anno di vita. La febbre, spesso elevata, è di norma il primo campanello d'allarme (aspecifico). Devono invece indurre in sospetto l'accrescimento progressivo del fegato e della milza: sintomi a cui possono aggiungersi l'ingrossamento dei linfonodi, l'ittero e la comparsa di eruzioni cutanee. Questi indicatori, uniti ad alcuni criteri di laboratorio e al riscontro di globuli rossi aggrediti e inglobati dai macrofagi (emofagocitosi), portano alla diagnosi della malattia che colpisce il sistema immunitario. E che, in alcune situazioni, può manifestarsi a seguito di altre condizioni (si parla di linfoistiocitosi emofagocitica secondaria).
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EMAPALUMAB, IN ATTESA DEL TRAPIANTO
Al momento, non ci sono cure specifiche per la linfoistiocitosi emofagocitica primaria. La terapia convenzionale impiegata prevede la somministrazione di un trattamento utilizzato anche nei confronti dei tumori del sangue e del sistema linfatico (glucocorticoidi ed etoposide). Un approccio aggressivo, «preso in prestito» dall'oncologia per ridurre l'infiammazione in attesa del trapianto di cellule staminali emopoietiche: considerato l'unica soluzione per la malattia. Ma che non è bastato negli anni a ridurre un tasso di mortalità che si aggira attorno al 40 per cento. Da qui la ricerca di un farmaco in grado di garantire analoga sicurezza e maggiore efficacia rispetto alla chemioterapia. D'ora in avanti, il «ponte» con cui alimentare le speranze di queste famiglie in attesa del trapianto potrebbe chiamarsi emapalumab. La somministrazione dell'anticorpo monoclonale, diretto contro una molecola (interferone gamma) che gioca un ruolo chiave nel regolare la risposta immunitaria e che risulta prodotta in eccesso nei pazienti con la linfoistiocitosi emofagocitica primaria, ha permesso di «spegnere» la risposta infiammatoria, in attesa del trapianto. E non ha determinato l'insorgenza di particolari effetti collaterali - a partire dalla soppressione del midollo osseo, temuto per l'aumentato rischio infettivo a cui risultano esposti i pazienti - né una riacutizzazione dei sintomi della malattia.
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TERAPIA EFFICACE IN OLTRE 6 PAZIENTI SU 10
Nella corsa contro il tempo condotta alla ricerca di un donatore compatibile, Alex (nella foto, presa dalla pagina Facebook dedicata alla sua storia) è stato uno dei bambini trattati in via sperimentale con emapalumab, in attesa del trapianto portato a termine usando suo padre come donatore. «Il nuovo farmaco rappresenta un prototipo di terapia molecolare mirata e un passo importante verso il miglioramento dei risultati per questa malattia genetica grave e pericolosa per la vita dei pazienti», afferma Franco Locatelli, direttore del dipartimento di oncoematologia e terapia cellulare e genica dell'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, che ha coordinato per l'Europa lo studio pubblicato sul New England Journal of Medicine. Il trattamento, portato avanti per otto settimane, si è rivelato efficace in oltre 6 pazienti su 10. Un dato incoraggiante, che ha spinto i ricercatori a stimare un tasso di successo del trapianto superiore al 90 per cento. Dieci i decessi registrati, per cause (insufficienza respiratoria, sindrome da distress respiratorio acuto, insufficienza d'organo, collasso cardiocircolatorio ed emorragia gastrointestinale) però «non ricollegabili alla terapia con emapalumab», è quanto riportato nel lavoro: in calce anche la firma di Franca Fagioli, direttore della struttura complessa di oncoematologia pediatrica dell'ospedale Regina Margherita di Torino e membro del comitato scientifico di Fondazione Umberto Veronesi.
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UN SUCCESSO DELLA RICERCA
Con questi risultati, nonostante i numeri contenuti dello studio (34 pazienti) e l'assenza di un gruppo di controllo, «dovremmo considerare l'emapalumab somministrato assieme al desametasone come lo standard di cura per un trattamento di seconda linea in quei pazienti in cui l'approccio tradizionale non si rivela efficace», aggiunge Michael Jordan, oncoematologo pediatra al Cincinnati Children's Hospital Medical Center e coautore della ricerca. La sperimentazione apre la strada anche alla possibilità di trattare i piccoli pazienti affetti da linfoistiocitosi emofagocitica primaria (2 ogni 100mila nuovi nati) con l'anticorpo monoclonale fin da subito. Emapalumab è già stato approvato dalla Food & Drug Administration (FDA), l'ente che si occupa dell'autorizzazione all'utilizzo di nuovi farmaci negli Stati Uniti. Il fascicolo è adesso in fase di valutazione anche nel Vecchio Continente, da parte dell'Agenzia europea per i medicinali (EMA).
Fabio Di Todaro
Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).