Si chiama EXO-Psa un nuovo possibile marcatore per il tumore della prostata. La ricerca al lavoro per arrivare a uno screening efficace
Il dosaggio dell'antigene prostatico specifico (Psa) nel sangue è al momento l'unica indagine efficace e non invasiva per «misurare» la salute della prostata. Negli anni si è però capito che il test, da solo, non è in grado di discernere tra un tumore e l'ipertrofia prostatica benigna, anch'essa responsabile dell'aumento dei livelli di Psa. Da qui il tentativo di individuare un altro indicatore che restituisca un'istantanea più definita delle condizioni della ghiandola. Va letto in questo modo il tentativo intrapreso da un gruppo di ricercatori dell'Istituto Superiore di Sanità e dell'Università Sapienza, che nell'«EXO-Psa» ha individuato un nuovo possibile marcatore tumorale. Ipotesi probabilmente fondata, ma che dovrà comunque trovare ulteriori riscontri.
COME INTERPRETARE
I DIVERSI VALORI DI PSA?
EXO-PSA: DI COSA SI TRATTA
L'EXO-Psa è l'antigene prostatico specifico che circola nel sangue all'interno degli esosomi, piccole vescicole che si staccano da tutte le cellule del nostro organismo. In caso di malattia oncologica, però, a rilasciarle nel circolo sanguigno sono soprattutto quelle tumorali. Riconoscendo questa peculiarità, i ricercatori hanno valutato l'efficacia del dosaggio della molecola a scopo diagnostico, comparando i livelli rilevabili in campioni di plasma prelevati da persone sane, uomini con l'ipertrofia prostatica e con un tumore della prostata. Il confronto ha mostrato l'elevata affidabilità del test. L'alterazione dei valori di EXO-Psa è risultata infatti di gran lunga più marcata nelle persone alle prese con un cancro. E il rischio di valutare come malati gli uomini sani o quelli alle prese con un'ipertrofia ghiandolare è stato nullo (rispetto a uomini sani) o pressoché tale (rispetto all'ipertrofia).
Prostata: come non farsi «sfuggire» un tumore se si ha l'ipertrofia
PROSTATA: SI TORNA A PARLARE DI SCREENING?
Grazie a questo test, messo a punto dai ricercatori dell'Istituto Superiore di Sanità coordinati da Stefano Fais, in futuro si potrà forse avere un sospetto di diagnosi oncologica più fondato rispetto a quanto si può fare oggi con il Psa. Ma i passi da compiere prima che l'opportunità venga - eventualmente - messa a disposizione dei pazienti sono diversi. Si potrà evitare quello che oggi è un rischio ancora diffuso, ovvero che uomini sani o affetti da sola ipertrofia benigna siano sottoposti a indagini inutili, quali la risonanza magnetica multiparametrica e la biopsia prostatica? Secondo Alessandro Sciarra, coordinatore della prostate unit del Policlinico Umberto I di Roma e coautore della ricerca pubblicata sulla rivista Cancers, «è presto per dirlo».
STUDI ANCORA SPERIMENTALI
La puntualizzazione è utile per rispondere a chi ha già chiesto informazioni sull'opportunità di sottoporsi al test. «Il dosaggio del Psa esosomiale non è disponibile in alcun ospedale - precisa lo specialista -. E il nostro lavoro, comunque, non dice infatti nulla circa la possibilità di differenziare le diagnosi dei tumori più aggressivi da quelli clinicamente non significativi». Per chiarire questo punto, cruciale ai fini di evitare un eccesso di interventi chirurgici, servirà un'ulteriore ricerca.
PSA E TUMORE DELLA PROSTATA
Il controllo del Psa consiste in una semplice analisi del sangue che misura il livello dell'antigene prostatico specifico prodotto dalla prostata e normalmente presente nel sangue in piccole quantità. Indispensabile nel monitoraggio delle cure per un tumore della prostata e nei controlli successivi, è invece meno attendibile nella diagnosi precoce della malattia. Negli anni, è stato prima considerato un possibile marcatore ideale per uno screening oncologico rivolto alla popolazione adulta maschile. E poi progressivamente rimesso in discussione, dal momento che il Psa è considerato un indicatore di attività dell’organo e non un marcatore tumorale. La sensibilità del test varia infatti dal 70 all’80 per cento. Questo significa che il 20-30 per cento delle neoplasie non viene individuato quando si utilizza questo esame come unico mezzo identificativo. E la sua concentrazione, peraltro, può aumentare per una varietà di ragioni, fra le quali anche un'infiammazione della ghiandola. Ciò vuol dire che si rischia di ricorrere a ulteriori indagini alla ricerca di un tumore che in realtà non c'è. E che probabilmente mai ci sarà. Inoltre, anche quando si è in presenza di un tumore confermato alla biopsia, non si è sempre in grado di capire se si tratta di una forma indolente che può non essere trattata o di una forma che richiede un intervento, con chirurgia o radioterapia.
Tumore della prostata: la radioterapia postoperatoria può essere evitata
UOMINI: I CONTROLLI DA FARE
Sulla base di queste considerazioni, l’esame va consigliato soltanto ai pazienti che hanno superato i 50 anni: se c'è un fondato sospetto della presenza di un tumore, in caso di familiarità o se si soffre di disturbi urinari. «La soluzione però non sta nell'autolettura dell'esame, ma in una valutazione più ampia da parte dell'urologo - chiarisce Walter Artibani, segretario generale della Società Italiana di Urologia -. Occorre tenere conto anche della variazione del parametro nel tempo e delle dimensioni della prostata, rilevabili attraverso l'esplorazione rettale». Soltanto in seguito si può decidere di approfondire le indagini.
Fonti
Fabio Di Todaro
Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).