La terapia dell'ipertrofia prostatica con gli inibitori della 5-reduttasi può determinare un ritardo nella diagnosi del tumore della prostata. I consigli per una prevenzione «su misura»
L’ipertrofia prostatica benigna - malattia non tumorale che comporta l’ingrossamento anomalo della ghiandola: determinato da un’infezione (batterica o virale), da alterazioni ormonali, da problemi di natura autoimmune o da un processo di invecchiamento - è il disturbo urologico più diffuso. Ne soffrono sette milioni di italiani, con «punte» che raggiungono l'80 per cento degli uomini oltre gli 80 anni. Le prime terapie adottate sono in genere farmacologiche e puntano al contenimento dei sintomi. Tra questi farmaci, vi sono gli inibitori della 5-reduttasi che determinano una riduzione del volume della ghiandola, riducendo inoltre i livelli dell'antigene prostatico specifico (Psa). La loro somministrazione, però, impone un cambio di strategia nella prevenzione del tumore della prostata (che non è più frequente nei pazienti con ipertrofia).
IPERTROFIA PROSTATICA:
MEGLIO I FARMACI O LA CHIRURGIA?
IL TRATTAMENTO DELL'IPERTROFIA PROSTATICA
A confermarlo è uno studio pubblicato sulla rivista Jama Internal Medicine, da cui emerge come spesso questi pazienti arrivino tardi alla diagnosi della più diffusa malattia oncologica maschile. La ricerca, firmata da un gruppo di scienziati dell'Università di San Diego, ha visto coinvolti oltre 80mila uomini che avevano ricevuto una diagnosi di carcinoma della prostata tra il 2001 e il 2015. Obiettivo degli autori era quello di verificare quanto l'utilizzo di un inibitore della 5-alfa reduttasi (la finasteride, anche se oggi è più diffuso il ricorso alla dutasteride) potesse aver fatto «slittare» la diagnosi della malattia (indipendentemente dalla sua aggressività): con prevedibili ricadute sull'esito finale. Osservando i pazienti fino al momento del decesso o comunque non oltre il termine del 2017, i ricercatori hanno trovato conferma della loro ipotesi. Più bassa era infatti la quota di pazienti trattati con finasteride sottopostisi a una biopsia entro due anni, rispetto al dato rilevato negli uomini curati in altra maniera (oggi si ricorre anche a un farmaco derivato da un estratto di serenoa repens, una palma originaria del Sud America). A questo dato, se n'è aggiunto un altro: un più alto tasso di malattie aggressive e dunque con una prognosi peggiore negli uomini trattati con l'inibitore della 5-alfa reduttasi.
Ipertrofia prostatica benigna: il nemico è l'infiammazione
UNA PREVENZIONE SPECIFICA
Un possibile ritardo nella diagnosi del tumore della prostata negli uomini in trattamento con gli inibitori delle 5-alfa reduttasi può essere anche legato alla riduzione dei valori dell'antigene prostatico specifico, se non gestiti in modo corretto. Questo meccanismo di azione può portare a sottovalutare un incremento del Psa che, pur non essendo un marcatore specifico della malattia, non deve comunque essere mai sottovalutato. In questi pazienti, d'altra parte, non è infrequente registrare lievi aumenti dell'enzima, che possono però già essere la spia della presenza di un tumore della prostata. Da qui la necessità di aumentare la consapevolezza, soprattutto nella comunità dei medici di base. «La prevenzione deve tenere conto della terapia in atto per l'ipertrofia prostatica benigna - afferma Cosimo De Nunzio, urologo dell'azienda ospedaliero-universitaria Sant'Andrea di Roma -. Prima, in questi pazienti, era frequente l'indicazione a sospendere il trattamento per effettuare, dopo un mese, il dosaggio del Psa. Oggi sappiamo che questa pratica è scorretta, anche se ancora largamente diffusa». In sintesi: non è dando modo al Psa di «risalire» in maniera fisiologica che si deve giungere all'eventuale diagnosi di un tumore della prostata.
PSA: COME COMPORTARSI?
Gli inibitori delle 5-alfa reduttasi vengono assunti per un periodo mai inferiore a un anno, ma spesso anche superiore: a meno che nel tempo non si decida di intervenire chirurgicamente per ridurre le dimensioni della prostata. Per questo motivo, vista la diffusione dell'ipertrofia, occorre conoscere l'approccio da adottare nei confronti di questi pazienti. Le principali società scientifiche suggeriscono di monitorare le oscillazioni del Psa «nadir»: ovvero il valore più basso del marcatore che si raggiunge dopo la prescrizione di farmaci come la dutasteride o la finasteride (oltre il quale il Psa non cala). Importante è anche monitorare quanto velocemente cresca nel tempo il valore del Psa. Per questo, nell'anno che segue l'inizio del trattamento, i controlli andrebbero effettuati ogni tre mesi. A fronte di incrementi anche minimi del Psa «nadir», «è necessario un approfondimento diagnostico: prima con la risonanza magnetica, poi eventualmente ricorrendo alla biopsia», conclude De Nunzio. «L'ipertrofia prostatica non aumenta il rischio di ammalarsi di tumore, ma il ricorso a questi farmaci impone una stretta sui controlli, considerando che le forme di cancro che si rilevano in questi pazienti sono spesso aggressive».
Fabio Di Todaro
Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).