I farmaci a bersaglio molecolare migliorano la sopravvivenza del tumore del polmone non a piccole cellule. Ma per somministrarli in maniera adeguata, occorre avere diagnosi più precise. Opportunità non ancora reale in tutti gli ospedali italiani
I farmaci a bersaglio molecolare che migliorano la sopravvivenza del tumore del polmone non a piccole cellule esistono da diversi anni. Sono indicati per almeno un quarto dei pazienti e mostrano un'efficacia superiore alla chemioterapia (con la quale la sopravvivenza è inferiore a un anno). Ma per fare in modo che abbiano l’effetto sperato, occorre usarli in maniera efficace: cosa che in Italia non si verifica a tutte le latitudini. Lungo la Penisola, infatti, continuano a esserci centri di «serie A» e centri di «serie B» nel trattamento di quella che è una delle neoplasie più aggressive. Nei primi, il ricorso alla diagnosi di precisione e alle cure più efficaci fa ormai parte della prassi quotidiana. Nei restanti, no. Questo si traduce in una minore probabilità di curare con efficacia le forme più avanzate di tumore del polmone, prospettiva oggi divenuta concreta con l’avvento dei farmaci a bersaglio molecolare (oltre che dell’immunoterapia).
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TUMORE DEL POLMONE: LA MALATTIA NEL NOSTRO PAESE
Quello del polmone è uno dei tumori gravati dal più alto tasso di mortalità. Nel 2019, in Italia, sono attesi 42.500 nuovi casi. Si tratta della seconda malattia oncologica più frequente tra gli uomini, la terza tra le donne. L’85 per cento delle diagnosi è di tumore del polmone non a piccole cellule, per il quale negli ultimi anni si sono registrati diversi progressi nelle terapie. Detto questo, l’impatto della malattia (novembre è a livello mondiale il mese dedicato alla sensibilizzazione) è comunque ancora molto significativo: sia perché la diagnosi avviene spesso quando è già in fase avanzata sia perché fino a poco tempo fa l’efficacia dei trattamenti era molto limitata. Non devono stupire dunque due dati: i 33.838 decessi registrati nel 2016 e la quota di pazienti vivi cinque anni dopo la diagnosi (appena il 16 per cento). Nel complesso, sono quasi 107mila le persone viventi avendo alle spalle una diagnosi di tumore del polmone: in un caso su 4 risalente a più di dieci anni addietro. Per la maggior dei casi, però, negli ultimi due lustri la ricerca ha messo a disposizione nuove soluzioni terapeutiche. Il problema è che, in Italia, si fatica a metterle a disposizione di tutti i pazienti che ne avrebbero bisogno.
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TROPPE DISPARITÀ NEGLI OSPEDALI ITALIANI
A confermarlo sono i risultati di un’indagine condotta da un gruppo di ricercatori dell’Università di Perugia. Al loro questionario hanno risposto 81 specialisti in oncologia toracica operanti in diversi ospedali del Paese. Obbiettivo della ricerca era quello di verificare quanto la gestione del tumore del polmone non a piccole cellule sia omogenea nelle strutture sanitarie italiane e se la percezione sulle disparità di accesso alle cure sia correlata alla mobilità sanitaria, che porta i pazienti a curarsi in una regione differente da quella di residenza. La tendenza, come documenta l’ultimo rapporto della Fondazione Gimbe, è in crescita. E, nella maggior parte dei casi, è legata alla possibilità di avere accesso alle cure più appropriate lontano da casa. Lo studio ha confermato l'ipotesi di partenza. «Abbiamo riscontrato evidenti disuguaglianze nell’accesso alla diagnosi molecolare e all’immunoterapia come prima scelta terapeutica per i pazienti con una malattia avanzata», dichiara Andrea De Giglio, ora specializzando in oncologia medica all’università di Bologna e prima firma della ricerca. Disparità dettate da disuguaglianze economiche e strutturali che ricadono per intero sulle spalle dei pazienti. Diverse le criticità evidenziate: dalla «mancata disponibilità di metodiche diagnostiche standardizzate su tutto il territorio» alla «carenza di tempo dovuta all'eccessivo carico di lavoro». Le situazioni più gravi sono state rilevate nelle regioni in deficit sanitario: Puglia, Abruzzo, Sicilia, Calabria, Basilicata, Campania, Molise, Lazio e Sardegna.
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TERAPIE A BERSAGLIO MOLECOLARE: UNA RISORSA «A METÀ»
I farmaci a bersaglio molecolare - talora da assumere per via orale, in altri casi per via endovenosa - non si sostituiscono alla chemioterapia. Hanno un'azione «selettiva», che permette loro di agire in modo più preciso sulle cellule tumorali: rallentando o talvolta bloccando la loro proliferazione. L'indicazione a somministrarli esiste per una quota compresa tra il 20 e il 25 per cento dei pazienti colpiti da un tumore del polmone non a piccole cellule, non necessariamente fumatori (o ex). Per poter arrivare a questo punto, però, occorre formulare una diagnosi accurata. Oltre che dall’esame istologico, questa passa dalla «lettura» del Dna di una cellula tumorale per identificare le alterazioni che la caratterizzano. L’iter - per adesso - prevede che se ne ricerchi un numero ristretto: Egfr, Alk, Ros1. Se rilevate, i farmaci da utilizzare sono gli inibitori delle tirosin chinasi: sette quelli già approdati sul mercato. Ma il nodo da sciogliere è legato alla diagnosi molecolare. Servirebbe sempre, perché l’impatto di queste molecole è tanto più rilevante sulla sopravvivenza quanto più accurata è la «selezione» dei pazienti da trattare. Lo scenario non è però comune a tutti gli ospedali italiani, dove l’«incostante o ritardata disponibilità dei test», per citare una delle risposte più di frequente fornita dagli oncologi, rischia di penalizzare i pazienti sul nascere. Così quelli più informati - o su consiglio dello specialista chiamato a completare la diagnosi - finiscono per spostarsi anche di migliaia di chilometri verso i centri più grossi per non compromettere le chance di cura.
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PIÙ CENTRI DI RIFERIMENTO PER CURARE IL TUMORE DEL POLMONE
La definizione del profilo molecolare del tumore del polmone - rappresenta l’11 per cento delle diagnosi oncologiche e la prima causa di morte per tumore, sommando i decessi che si registrano in entrambi i sessi - dovrebbe essere la prassi. L’ideale sarebbe conoscere l’esito di questo supplemento di indagini nelle due settimane successive all’esame istologico, così da non ritardare l’inizio delle cure. Ma l’obbiettivo è ancora lontano. Per migliorare la situazione, «occorre individuare al più presto dei centri di riferimento su base regionale o interregionale per la diagnosi istologica e molecolare del tumore del polmone - afferma Rita Chiari, direttore dell’unità operativa complessa di oncologia medica degli Ospedali Riuniti Padova Sud e coordinatrice della ricerca -. Servirebbe inoltre un team multidisciplinare in ogni area per guidare la strategia terapeutica approntabile dopo aver completato una diagnosi così avanzata». In questo modo, lasciando agli «hub» la possibilità di coordinare la gestione dei casi più complessi in carico alle strutture periferiche («spoke»), si ridurrebbe la mobilità sanitaria. «Perché i pazienti potrebbero essere gestiti in maniera adeguata anche nei reparti più vicini alla loro residenza».
LA MOBILITÀ CHE PUÒ SERVIRE
Per il momento, considerando che diversi farmaci sono ancora in sperimentazione, una certa quota di mobilità rimane inevitabile. Ed è quella che oggi porta i pazienti a spostarsi in direzione dei centri in cui si fa anche ricerca, dov’è più probabile che si ottenga una «fotografia» più nitida della malattia e «si possa eventualmente iniziare un trattamento con farmaci in sperimentazione o utilizzati al di fuori delle autorizzazioni ricevute», conclude la specialista, membro del direttivo nazionale dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica (Aiom). «Le terapie a bersaglio molecolare stanno modificando il decorso di questa malattia. Ma affinché lascino il segno, dobbiamo somministrare da subito il farmaco migliore per ogni paziente. Ricorrendovi in seconda battuta, le probabilità di sopravvivere alla malattia potrebbero risultare già compromesse».
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Fabio Di Todaro
Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).