Nei tumori al seno in stadio precoce è calato il ricorso alla chemioterapia. Merito della genomica, della diagnosi precoce e anche degli oncologi
La chemioterapia? Rimane un'arma fondamentale per evitare le recidive del tumore al seno: sopratutto quando la malattia viene scoperta in fase più avanzata (stadi 3 e 4). Ma in molti casi oggi è possibile farne a meno.
Per due ragioni, sostanzialmente: la diagnosi precoce e la possibilità di valutare la firma genomica del tumore, grazie alla quale è possibile prevedere l'aggressività della neoplasia e la sua sensibilità alla chemioterapia.
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MENO CHEMIOTERAPIA CONTRO IL TUMORE AL SENO
A documentare la riduzione nel ricorso alla chemioterapia per curare quello che è il diffuso tumore femminile, e anche quello che nel caso specifico continua ad avere il più alto tasso di mortalità, è una ricerca statunitense, pubblicata sul Journal of National Cancer Institute e condotta da tre istituti: l'Università del Michigan, l'Emory University (Atlanta) e l'Università del Sud della California (Los Angeles). Analizzando i dati relativi a 2926 pazienti colpite da un tumore al seno in stadio precoce nei tre anni compresi tra il 2013 e il 2015, gli autori dello studio hanno documentato una sensibile riduzione (di oltre 13 punti percentuali) nel ricorso alla chemioterapia: senza alcuna ricaduta in termini di recidiva della malattia e di sopravvivenza delle donne. Un cambio di approccio «notevole, seppure registrato in un tempo relativamente ristretto», per dirla con Allison Kurian, direttore del programma di genetica oncologica femminile all'Università di Stanford e primo autore della pubblicazione. L'attesa era quella di trovare un terzo delle pazienti operate e poi sottoposte anche alla chemioterapia. Invece il dato è risultato quasi dimezzato: pari a un quinto, per la precisione.
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CHEMIOTERAPIA: QUANDO SE NE PUO' FARE A MENO?
La scelta delle pazienti da arruolare nello studio non è stata casuale: tutte colpite da un tumore al seno agli stadi 1 o 2 (in stadio iniziale, di dimensioni inferiori ai due centimetri, senza o con il coinvolgimento dei linfonodi ascellari), con la presenza sulle cellule tumorali dei recettori estrogenici e non invece di quello per il fattore di crescita epidermico (Her 2). Cosa vuol dire questo, nella pratica? «Per verificare la possibilità di rinunciare alla chemioterapia, sono state coinvolte donne in grado di rispondere bene alla terapia ormonale per ridurre il rischio di recidiva della malattia - afferma Michelino De Laurentiis, direttore della divisione di oncologia medica senologica dell'Istituto Nazionale dei Tumori Fondazione Pascale di Napoli -. I cancri della mammella presi in considerazione che, in termini tecnici, corrispondono al sottotipo Luminal: rilevabile nel 60-70 per cento del totale delle diagnosi. Prima, in situazioni analoghe, la maggior parte di queste donne veniva sottoposta alla chemioterapia. Da qualche anno l'approccio è cambiato: oggi soltanto poco più di un terzo di queste pazienti colpite da un tumore al seno luminal necessita della chemioterapia». Diverso invece è il discorso per i tumori che mostrano i recettori per il fattore di crescita epidermico Her2 (Her2-positivo) e per quelli che invece non hanno nessuno dei tre recettori principali (sottotipo di tumore al seno triplo negativo). «In questi ultimi due sottotipi tumorali la somministrazione della chemioterapia è praticamente obbligatoria», aggiunge lo specialista.
UN CAMBIO DI APPROCCIO GUIDATO DAI TEST GENOMICI
Non è in discussione l'efficacia della chemioterapia adiuvante in quanto tale, ma, piuttosto, l’individuazione delle pazienti in cui se ne può fare a meno senza correre rischi. «Il discorso nasce da un avanzamento della conoscenza e da un cambiamento dell’atteggiamento culturale degli oncologi - puntualizza De Laurentiis -. L’avanzamento delle conoscenze è legato allo sviluppo dei test genomici, che hanno dimostrato in maniera inequivocabile che la maggior parte delle donne con tumore Luminal non necessita della chemioterapia». Questi test sono utili soprattutto per quei casi cosiddetti intermedi, in cui l’oncologo è in dubbio se prescrivere o meno la chemioterapia. Il loro utilizzo non è però ancora coperto dal Servizio Sanitario Nazionale, motivo per cui risultano disponibili soltanto nei centri più avanzati e con una maggiore casistica. In questo modo oggi è possibile evitare il ricorso alla chemioterapia «a tappeto», secondo quella che in origine era una scelta dettata anche da un approccio difensivo da parte degli specialisti. «Ma lo studio indica pure che la riduzione nelle prescrizioni di chemioterapia non può essere dovuta solo all’impiego dei test genomici - prosegue lo specialista -. A incidere è anche il cambiamento culturale che, come oncologi, stiamo attraversando nei confronti della malattia. Oggi siamo più equilibrati, abbiamo capito che non sempre occorre essere aggressivi per evitare la ripresa della malattia. Siamo meno preoccupati del tumore e più attenti alla persona che stiamo curando».
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COME REAGISCONO LE DONNE?
Oltre al dato di fatto, anche le segnalazioni raccolte dalle pazienti testimoniano una riduzione nel ricorso alla chemioterapia adiuvante, nei casi già indicati. Le donne, di fronte a una comunicazione di questo tipo da parte degli oncologi, solitamente rispondono in due modi differenti: con soddisfazione (perché possono evitare gli effetti collaterali della chemioterapia) o con un pizzico di preoccupazione. «Nella seconda categoria rientrano sopratutto le pazienti giovani - chiosa De Laurentiis -. Loro, sopratutto se sono giovani mamme, sono ancora restie a non sottoporsi alla chemioterapia. Spesso chiedono di farla comunque, per sentirsi più sicure. Ma sta a noi oncologi spiegare con chiarezza quando e perché se ne può eventualmente fare a meno». Detto ciò, occorre comunque essere prudenti. «La scelta di sottoporre o meno una paziente alla chemioterapia non deve essere completamente influenzata dai suoi desiderata, altrimenti corriamo il rischio di esagerare al contrario e di prenderci dei rischi inutili».
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Fonti
Fabio Di Todaro
Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).