Il tema della preservazione della fertilità durante e dopo la cura di un cancro è il focus del primo approfondimento di «Donne e tumore: com'è cambiata la tua vita?»
Fino a dieci anni fa, una diagnosi di cancro in età fertile equivaleva a una stroncatura per la donna desiderosa di mettere al mondo un figlio. Il progresso scientifico ha invece definito un nuovo equilibrio, tra le diverse priorità. Al primo posto c'è sempre la necessità di curare la malattia e salvare la vita della paziente. Ma oggi proteggerla per fare in modo che possa affrontare una gravidanza una volta in remissione dalla malattia è la sfida che sono chiamati ad affrontare gli oncologi, anche in ragione dell'aumento delle diagnosi di tumore (sopratutto al seno) in giovane età.
Per troppe donne la gravidanza dopo un tumore rimane un'utopia
PAROLA ALLE DONNE
Il tema della preservazione della fertilità nelle pazienti oncologiche è il focus del primo approfondimento di «Donne e tumore: com'è cambiata la tua vita?», il contenitore dedicato alle donne ammalatesi di tumore al seno, all'utero o alle ovaie. L'opportunità è concessa da meno di dieci anni e le testimonianze raccolte descrivono un processo ancora in via di definizione, ma già ben oleato.
Racconta Alessia, dopo il cancro divenuta mamma di una bambina che oggi ha tre anni: «Era il 16 Gennaio 2013 quando, convinta di ritirare il referto di una conizzazione effettuata per pulire il collo dell’utero da una piccola lesione provocata dal papillomavirus, il ginecologo mi comunicò un'altra diagnosi. Avevo un tumore e mi fu detto di perdere ogni speranza di diventare mamma. Ho ricordi confusi di quei momenti, ma non potevo credere a quanto ascoltato. L ’idea di non coronare il sogno di diventare mamma e creare una famiglia con mio marito mi faceva impazzire. Decisi di ascoltare un'altra opinione: mi fu così prospettata la possibilità di intraprendere un iter conservativo, senza dover togliere l’utero. Gli esami effettuati confermarono questa ipotesi e, a un anno da quel giorno, mi ritrovai in attesa di mia figlia. L'umanità e la professionalità degli specialisti incontrati hanno determinato in meglio il futuro mio e della mia famiglia».
Era stato un tumore al seno a far tremare invece Gabriella Doneda, una delle pink runner della Fondazione Umberto Veronesi. «Non voglio un tumore, ma dei figli», rispose al senologo che le comunicò la diagnosi: la stessa che quattro anni prima le aveva portato via una sorella. «Avevo 37 anni e sapevo che le cure mi avrebbero sottratto tempo prezioso per realizzare questo sogno. Il primo specialista non seppe indirizzarmi su un percorso adatto a una donna della mia età che stava per affrontare delle cure che avrebbero potuto compromettere la sua fertilità. Decisi di cambiare ospedale e mi fu subito consigliato di effettuare la crioconservazione degli ovociti prima dell’inizio della chemioterapia. Grazie a questa possibilità, sono rimasta incinta. Da tre gameti sono nati i miei due gemelli, Bianca e Lorenzo. Il tumore mi ha tolto tanto, ma non il mio sogno. E se oggi posso raccontare questa storia, il merito è sopratutto della ricerca scientifica».
GRAVIDANZA E ALLATTAMENTO SONO POSSIBILI DOPO UN TUMORE AL SENO?
UN'OPPORTUNITA' CHE PUO' FARE LA DIFFERENZA
Entrambe le donne, oltre a sottolineare il buon esito della gravidanza, hanno rimarcato il peso che questa chance ha avuto fin da subito e comunque pure nel percorso terapeutico. «A prescindere dall'arrivo o meno della gravidanza, far presente una simile opportunità è già di per sè molto importante - afferma Claudia Borreani, responsabile della struttura di psicologia clinica dell'Istituto Nazionale dei Tumori di Milano -. Nelle donne giovani, che si trovano ad affrontare la malattia in una fase della vita in cui devono ancora compiere scelte cruciali per il proprio futuro, questo aspetto aiuta a mantenere una progettualità che prima era spesso inesistente. Non è un caso che ci siano donne con più di trent'anni che optano per il congelamento degli ovociti pur non avendo un compagno. Garantirsi questa opportunità aiuta a gestire meglio il percorso terapeutico».
«Dobbiamo imparare ad ascoltare e a comunicare meglio con i pazienti»
CHI HA DOVUTO RINUNCIARE
Detto ciò, non tutte le storie sono a lieto fine. A Emilia, 33 anni e madre di un bambino di tre anni e mezzo, è capitato di scoprirsi ammalata di tumore al seno a 31 anni. Due giorni dopo aver ricevuto la diagnosi, scoprì pure di essere incinta. Poche settimane più tardi di essere portatrice di una mutazione Brca, per cui a distanza di qualche anno avrebbe dovuto rimuovere pure le ovaie. Croci e delizie della vita. «Passai dall'attesa del secondo figlio alla notizia di dover interrompere la gravidanza, vista l'urgenza di rimuovere il cancro. Fu una batosta, non lo nego. Ma oggi, dopo aver rimosso anche l'altro seno, mi sento bene: io, mio figlio e mio marito abbiamo ricominciato a vivere». D'altra parte interrompere una gravidanza per un tumore, per quanto non più così frequente, «è sempre una scelta dolorosa - aggiunge Borreani -. La sofferenza è sempre enorme, anche se il nostro lavoro è più difficile con le donne non più giovanissime che non hanno altri figli. In quei casi anche lavorare sulla speranza per il futuro non è sempre possibile».
Anche diventare padri dopo il cancro oggi è possibile
LE POSSIBILITÀ DI DIFENDERE LA FERTILITÀ
Il punto è che le cure oncologiche in molti casi compromettono la possibilità futura di avere figli. Il danno può arrivare con gli interventi chirurgici, con i chemioterapici o con la radioterapia. La strategia, allora, per una donna in età fertile che lo desidera, è quella di correre ai ripari prima dell'inizio delle terapie, se possibile. Mettendo al sicuro gli ovociti oppure il tessuto ovarico. Nel primo caso si procede a una stimolazione ormonale per indurre un'ovulazione multipla, poi al prelievo e congelamento degli ovociti, che, qualora si volesse tentare di ottenere in futuro una gravidanza, potranno poi in seguito venire scongelati, fecondati e trasferiti in utero. Nel secondo caso, si opta per una procedura ancora sperimentale che non richiede una stimolazione farmacologica. A disposizione degli oncologi, oggi, anche tecniche chirurgiche conservative e il ricorso a farmaci che proteggono le gonadi (ovaie) dai danni della chemioterapia.
ETA' E OVOCITI CONGELATI FANNO LA DIFFERENZA
I successi finora descritti vogliono essere soprattutto un auspicio, visto che la casistica è ancora limitata. Funzionano? L'Istituto Superiore di Sanità tiene infatti traccia dei cicli di raccolta dei gameti, non delle gravidanze giunte al termine. «Per molte pazienti sottopostesi a procedura di conservazione degli ovociti o del tessuto ovarico non è ancora trascorso il periodo di follow-up oltre il quale è possibile affrontare una gravidanza - dichiara Cristofaro De Stefano, responsabile dell'unità operativa di fisiopatologia della riproduzione e sterilità di coppia dell'azienda ospedaliera San Giuseppe Moscati di Avellino e revisore delle linee guida sulla preservazione della fertilità nei malati oncologici redatte dall'Associazione Italiana di Oncologia Medica (Aiom) -. Nel mondo, al momento, sono nati poco più di cento bambini da procedure di autotrapianto del tessuto ovarico, mentre se ne stimano molti di più da procedure di crioconservazione degli ovociti». Le probabilità di successo della procedura, come spiega Alberto Revelli, responsabile del centro di fisiopatologia della riproduzione e procreazione medicalmente assistita all'ospedale Sant'Anna di Torino, «dipendono da molteplici fattori: in primo luogo dall’età della donna al momento del congelamento e dal numero di ovociti conservati. In letteratura si riportano percentuali di bambini nati per singolo ovocita congelato e scongelato del 6,5 per cento, anche se i dati non si riferiscono alle pazienti oncologiche, per cui non c'è una casistica ampia da poter ricavare le probabilità di successo. L’obiettivo della stimolazione ovarica è quello di ottenere almeno 8-10 ovociti da crioconservare per ottimizzare le probabilità di successo al momento dello scongelamento».
QUALI FATTORI DI RISCHIO POSSONO COMPROMETTERE LA FERTILITA'?
C'E' ANCHE UN'ALTRA SOLUZIONE
Negli ultimi anni al congelamento degli ovociti e del tessuto ovarico (quest'ultima «una procedura ancora sperimentale e con indicazioni molto ristrette», precisa De Stefano) s'è aggiunta un'altra opportunità, frutto della ricerca italiana: la somministrazione degli analoghi dell'Lhrh, una chance in più per chi deve iniziare subito le cure anticancro e non ha modo di sottoporsi al prelievo degli ovociti. Si tratta di farmaci che proteggono le ovaie durante i trattamenti. A regalarla è stato il lavoro di Lucia Del Mastro, responsabile della struttura di sviluppo di terapie innovative al San Martino-Istituto Tumori di Genova e membro del comitato scientifico della Fondazione Umberto Veronesi. «In questo caso, comunque, l'età rischia di fare la differenza - puntualizza De Stefano -. Dovendo aspettare almeno cinque anni dalla fine delle cure, il rischio è quello di avere ovaie non più in grado di produrre ovociti fecondabili. Con il prelievo, invece, l'età dei gameti rimane cristallizzata al momento dell'intervento».
La gravidanza non aumenta il rischio di recidiva per il tumore al seno
I CENTRI DEDICATI
In Italia, come documenta l'Associazione Italiana Malati di Cancro (Aimac), sono 14 i centri (pubblici o privati convenzionati) con un’unità dedicata alla preservazione della fertilità nelle pazienti oncologiche. «Ma la lista - precisa Elisabetta Iannelli, vicepresidente dell’Aimac - non è esaustiva. Non si tratta di strutture censite né certificate. Ma è certo che in tutti questi centri vi è un servizio dedicato alla preservazione della fertilità delle pazienti oncologiche con un counseling adeguato e un team multidisciplinare. Oncologi, medici della riproduzione e psicologi lavorano insieme per dare cure, informazioni e supporto alle donne».
Sono però ancora poche, se il presidente dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica (Aiom) Carmine Pinto, direttore della struttura complessa di oncologia medica dell'Irccs Santa Maria Nuova di Reggio Emilia, auspica che «in ogni regione siano presenti centri di riferimento per l’oncofertilità. In questo modo sarà più semplice la scelta della struttura: sia per gli oncologi che devono mettersi rapidamente in contatto con i medici della riproduzione sia per i pazienti che possono disporre di maggiori strumenti decisionali in un momento della loro vita in cui devono operare scelte fondamentali per il loro futuro».
Come contenere il costo dei farmaci oncologici?
CHI PAGA?
Un altro limite è rappresentato dall’assenza di indicazioni specifiche per le malate oncologiche nei Livelli Essenziali di Assistenza (Lea). È questo aspetto a determinare un panorama eterogeneo, nel confronto tra Regioni. Soltanto alcune infatti - è il caso del Piemonte, della Lombardia, del Veneto, dell’Emilia Romagna, della Toscana, del Lazio, della Campania e della Sicilia - fanno ricadere i trattamenti per la preservazione della fertilità sotto l’ombrello dell’esenzione 048 riservata ai malati oncologici. I pazienti delle altre regioni hanno due opportunità: rivolgersi a casa propria, pagando le procedure, o trasferirsi per effettuare i trattamenti a titolo gratuito. In ogni caso nell’ambito delle terapie volte ad indurre l’ovulazione multipla per crioconservare gli ovociti, alcuni farmaci sono a carico del paziente. «Tale cifra può arrivare ad alcune centinaia di euro: a seconda del tipo di terapia e della risposta delle singole donne al trattamento - chiosa Revelli -. Le gonadotropine che inducono l’ovulazione multipla sono mutuabili, mentre per il mantenimento del materiale congelato i centri possono chiedere cifre variabili»: si va dalla gratuità a una spesa quasi mai superiore a 3-400 euro all’anno.
Fonti
Madre dopo il cancro, Associazione Italiana Malati di Cancro (Aimac)
Linee guida sulla preservazione della fertilità nei malati oncologici, Associazione Italiana di Oncologia Medica (Aiom)
Raccomandazioni su oncofertilità, Aiom-Sigo, Sie
Oocyte cryopreservation: where are we now?, Human Reproduction Update
Ottavo rapporto sulla condizione assistenziale dei malati oncologici
Fabio Di Todaro
Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).