Mammografia, ecografia, risonanza magnetica. Si riapre il dibattito sullo screening per il tumore al seno.
Mammografia, ecografia mammaria, risonanza magnetica. Torna ad animarsi il dibattito sullo screening oncologico per il tumore al seno, la neoplasia più diffusa tra le donne: quarantottomila le nuove diagnosi effettuate nel 2015 in Italia. Può l’ecografia essere ritenuta efficace al pari della mammografia oggi impiegata nelle indagini di popolazione? Sì, a detta di un gruppo di ricercatori statunitensi, autori di una nuova ricerca pubblicata sul Journal of the National Cancer Institute. Meno affascinati dall’ipotesi, invece, gli esperti italiani.
TUMORE AL SENO E PREVENZIONE:
QUALI ESAMI FARE?
QUALI STRUMENTI? UN PO’ DI CHIAREZZA
Tra gli strumenti per effettuare la diagnosi di tumore al seno, al primo posto c’è la mammografia. Si tratta di una radiografia della mammella utile per scoprire la presenza di noduli, microcalcificazioni o altri segni di una possibile neoplasia.
Con la mammografia - effettuata a cadenza biennale dai 50 ai 69 anni nel contesto dei programmi di screening organizzati dalle Aziende Sanitarie Locali con il Servizio Sanitario Nazionale - vengono identificate quasi nove neoplasie su dieci prima che risultino palpabili e gli strumenti di ultima generazione consentono di ottenere una grande sensibilità diagnostica utilizzando il minimo possibile di radiazioni, a una dose non dannosa.
In questa direzione va lo sviluppo della mammografia digitale, in grado di restituire immagini a più alta definizione rispetto a quella analogica, e della tomosintesi, sensibile e in grado di restituire un numero inferiore di falsi positivi.
Alle donne sotto i quarant’anni, quando alla visita esiste un dubbio diagnostico o la donna ha una storia familiare a rischio, è consigliabile effettuare un’ecografia del seno, che attraverso gli ultrasuoni permette di individuare la presenza e la natura di un nodulo, in assenza di radiazioni.
Diversa è la destinazione della risonanza magnetica: potente sì, ma non indicata per la popolazione generale visto l’alto tasso di falsi positivi (identifica come tumori formazioni che non lo sono). A oggi la si consiglia come metodica di screening, in aggiunta alla mammografia e all’ecografia, soltanto alle donne ad alto rischio: come quelle portatrici delle mutazioni dei geni Brca o sottoposte a radioterapia del mediastino in giovane età.
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ECOGRAFIA COME SOLUZIONE PER I PAESI IN VIA DI SVILUPPO?
Fin qui lo stato dell’arte, che un gruppo di ricercatori statunitensi ha provato a rimettere in discussione in uno studio condotto su 2.662 donne (età media 55 anni) con almeno un fattore di rischio per il tumore al seno, selezionate da venti centri diversi tra Stati Uniti, Canada e Argentina e sottoposte a programmi di screening annuale.
I ricercatori sono andati a caccia di un’eventuale neoplasia utilizzando su tre campioni altrettante procedure diagnostiche: l’ecografia, la mammografia analogica e quella digitale. Prevista anche una biopsia nei casi sospetti.
Obiettivo: determinare le eventuali differenze nel numero di diagnosi e nel tasso di richiamo (la percentuale di pazienti che vengono invitate a sottoporsi ad altri accertamenti nell’incertezza diagnostica) tra le varie metodiche.
Centoundici i tumori complessivamente scoperti: comparabili i tassi diagnostici registrati con l’ecografia (58 tumori) e la mammografia (59), con la prima in grado di scovare neoplasie più invasive che non avevano ancora coinvolto i linfonodi ascellari.
Ma l’ecografia ha evidenziato una controindicazione: un più alto tasso di falsi positivi, inevitabilmente seguito da un aumento delle indagini diagnostiche (agoaspirato) a cui sono state sottoposte le donne per cui si “sospettava” la presenza di una neoplasia al seno. Inoltre questa tecnica non ha identificato un discreto numero di tumori in situ, ovvero quelli in fase più precoce e si è dimostrata efficace solo su seni di piccole dimensioni: con spessore uguale o inferiore a quattro centimetri.
Secondo gli autori della ricerca, queste evidenze permettono tuttavia di «considerare l’ecografia un’alternativa affidabile per quei Paesi dove lo screening oncologico non esiste e un valido supporto (come già accade, ndr) per quelle realtà dove la mammografia non è disponibile».
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Di diversa opinione è invece Pietro Panizza, direttore della radiologia a indirizzo senologico dell’Irccs San Raffaele di Milano e già presidente della Società Italiana di Radiologia Medica. «La ricerca dimostra alcuni aspetti già noti, ma ha anche alcuni limiti: manca della lettura delle mammografie da parte di due radiologi, coinvolge soltanto donne con seni densi e dunque esposte a una minore sensibilità diagnostica della mammografia e considera gli esiti di un’indagine condotta con uno strumento ormai superato, come il mammografo analogico. Il confronto del futuro sarà tra l’uso degli ultrasuoni, la tomosintesi e la mammografia 3D». C’è anche un’altra ragione per cui non è ipotizzabile considerare l’ecografia alternativa alla mammografia, nelle procedure di screening oncologico: il tempo di lettura dell’esame.
La prima viene effettuata dal radiologo e richiede almeno un quarto d’ora: ovvero il tempo che lo stesso medico impiega per leggere 6-8 mammografie, acquisite dal tecnico di radiologia. Trattandosi di procedure che riguardano migliaia di pazienti, lo scorrere delle lancette fa la differenza.
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Fabio Di Todaro
Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).