Uno studio inglese esclude che lo screening per il carcinoma ovarico determini un calo dei decessi. Ma la diagnosi precoce può (comunque) fare la differenza
La speranza, per adesso, è destinata a rimanere tale. L’ipotesi di varare una campagna di screening oncologico per la diagnosi precoce del tumore dell’ovaio è rimandata a data da destinarsi. Negativo risulta infatti il bilancio del più ampio studio randomizzato condotto al fine di valutare quale percorso diagnostico possa essere in grado di intercettare la malattia quando è ancora silente. E, soprattutto, determinare una riduzione del nume o dei decessi di quello che rimane il più aggressivo, tra i tumori della sfera ginecologica.
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TUMORE DELL'OVAIO: LO SCREENING NON RIDUCE LA MORTALITÀ
La notizia giunge dalle colonne della rivista The Lancet, su cui i ricercatori dell’University College di Londra hanno pubblicato i risultati di un’analisi durata 16 anni. Questo l’intervallo di tempo durante il quale oltre 200mila donne (50-75 anni) sono state monitorate a cadenza annuale attraverso tre approcci: la semplice osservazione (nessuno screening), l’ecografia transvaginale e la sua combinazione con il dosaggio del Ca-125. Obbiettivo: valutare quale di queste strategie fosse la più efficace nel determinare una riduzione della mortalità collegata al tumore dell’ovaio. Complessivamente sono stati diagnosticati 2.055 nuovi casi di malattia: equamente ripartiti tra i tre gruppi. Tra le donne osservate con l’approccio multimodale (Ca-125 più ecografia), è stata registrata una riduzione delle diagnosi più avanzate (stadio 3 e 4) e un aumento di quelle con una neoplasia confinata alla ghiandola o alla tuba di Falloppio (stadio 1) o al massimo esteso alla pelvi (stadio 2). Un risultato incoraggiante, perché queste diagnosi sono accompagnate da una più alta percentuale di guarigione. Ma al di là dei casi registrati nello studio, nel gruppo di donne sottoposte allo screening multimodale è stato registrato un tasso di decessi analogo a quello rilevato nelle altre due coorti.
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MA LA DIAGNOSI PRECOCE PUÒ COMUNQUE FARE LA DIFFERENZA
Risultato: lo screening non è servito a salvare più vite. Dati alla mano continuano dunque a mancare gli elementi per introdurlo a livello di popolazione. «Per arrivare a questo, è necessario che un approccio diverso documenti una riduzione della mortalità - è il pensiero di Ian Jacobs, oggi alla guida dell’Università del Nuovo Galles del Sud (Sidney) e coordinatore del lavoro -. Non escludo che nuove ricerche possano portare all’attenzione queste prove, ma difficilmente ci saranno novità per i pazienti nei prossimi dieci anni». Lo studio ha però fornito comunque un risultato incoraggiante: la capacità di diagnosticare un tumore dell’ovaio in fase più precoce. «Scoprire la malattia in anticipo, complice anche l’arrivo di nuovi farmaci, può fare la differenza nell’esito delle terapie - dichiara Mahesh Parmar, direttore dell’unità di ricerca clinica dell’University College -. Questo rimane comunque un aspetto importante, al di là della mancanza di dati sull’efficacia dello screening. Anticipare la diagnosi dagli stadi 3 e 4 all’1 e al 2 fa una grande differenza: per le opzioni di trattamento disponibili e per la qualità della vita delle donne».
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UN TUMORE SEMPRE PIÙ DIFFUSO
Il tumore dell’ovaio rimane difficile da curare per l’assenza di sintomi specifici. I più frequenti sono il gonfiore addominale, la necessità di urinare spesso, la comparsa di fitte addominali. Meno comuni sono l'inappetenza, le perdite ematiche vaginali, le variazioni delle abitudini intestinali. Di fronte a un quadro così aspecifico, la conseguenza è inevitabile: 6 diagnosi di carcinoma ovarico su 10 avvengono quando la malattia è già in fase metastatica. Secondo le ultime proiezioni del rapporto Globocan, nel Mondo il numero delle diagnosi in tutto il mondo aumenterà del 42 per cento entro il 2040. Il tasso di sopravvivenza a cinque anni varia dal 35-45 per cento nei Paesi industrializzati a numeri di molto inferiori in altri Paesi. In Italia, le nuove diagnosi nel 2020 sono state 5.300. Circa 50mila le donne che convivono con la malattia.
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Fabio Di Todaro
Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).