Le donne giovani non dovrebbero ricorrere ad alcolici, sigarette e droghe. La marijuana può compromettere lo sviluppo nervoso e cognitivo del nascituro
La marijuana, al pari delle sigarette e degli alcolici, non dovrebbe avere nulla a che fare con la gravidanza e l'allattamento. Invece la legalizzazione in corso in molti Stati americani e la diffusa tendenza a minimizzare le conseguenze della sua assunzione stanno facendo crescere il numero di donne che l'assumono durante la gestazione: a scopo ricreativo o terapeutico. Da qui il monito lanciato dall'associazione statunitense dei pediatri che, pur ribadendo la limitatezza dei dati a disposizione, ha ribadito «la preoccupazione per le conseguenze che i principi attivi della cannabis possano avere sullo sviluppo a lungo termine dei bambini».
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PIU' MARIJUANA SE LA MAMMA E' PIU' GIOVANE
Nelle quindici pagine pubblicate sulla rivista Pediatrics, i ricercatori sono partiti da un dato di fatto. Negli Stati Uniti l'uso di cannabis è in aumento, anche in ragione del divieto all'uso caduto in molti Stati. I dati relativi al 2016 hanno evidenziato che il cinque per cento delle donne in gravidanza aveva consumato marijuana nel mese precedente. Trattasi di un dato medio, mentre ancora più preoccupante è quello rilevato tra le gestanti di età compresa tra 18 e 25 anni: l'8,5 per cento delle quali aveva fatto uso di cannabis, nel mese precedente l'intervista. Un dato, quello che evidenzia un consumo crescente al diminuire dell'età dell'aspirante mamma, confermato inoltre dalle statistiche raccolte tra le adolescenti in gravidanza (15-17 anni), relative al biennio 2012-2013: con il 14,6 per cento delle mamme che in gravidanza avevano assunto sostanze psicotrope illegali, considerando la marijuana quella più diffusa. Quali possono essere le conseguenze di questi comportamenti sulla salute del nascituro?
MARIJUANA IN GRAVIDANZA
I ricercatori hanno passato in rassegna le prove finora emerse, suddividendo i due momenti: la gravidanza (il «contatto» con i principi attivi della cannabis avviene attraverso la placenta) e l'allattamento (eventuale esposizione tramite il latte materno). Obiettivo: indagare le conseguenze che l'assunzione della marijuana può determinare sulla salute del neonato. Sebbene le evidenze riguardanti l'influenza della cannabis sullo sviluppo cerebrale di un bambino siano ancora da consolidare, i pediatri statunitensi sono convinti della necessità di «consigliare alle donne in gravidanza o che allattano di evitare la marijuana»: suggerimento che già riguarda il fumo e le bevande alcoliche. L'indicazione riguarda tanto l'uso ricreativo quanto quello terapeutico, dal momento che molte donne hanno riferito di avervi fatto ricorso per attenuare le nausee che possono comparire durante il primo trimestre di gravidanza. La cautela è dovuta, dal momento che il tetraidrocannabinolo (Thc), il principio attivo più presente nella marijuana, attraversa la placenta ed entra a contatto con il cervello del feto, in via di sviluppo. Serviranno nuove prove prima di essere certi delle conseguenze, ma sono diversi gli studi che hanno già dimostrato la capacità del Thc di «interferire con lo sviluppo neurologico, recando un danno riscontrabile con un calo di attenzione e concentrazione, una maggiore difficoltà nel controllare gli impulsi e nel venire fuori dalle difficoltà».
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MEGLIO EVITARE ANCHE QUANDO SI ALLATTA
Queste problematiche, secondo Sheryl Ryan, pediatra del Milton Hershey Medical Center e prima firma della pubblicazione, «potrebbero anche non essere subito visibili, ma comunque condizionare la capacità del bambino di vivere in società, di gestire i propri impegni scolastici e poi lavorativi». Senza trascurare il rischio di poter «avvicinare» i propri figli a queste sostanze nel corso dell'adolescenza, con le potenziali conseguenze derivanti. Per questo motivo l'invito alla prudenza riguarda anche la fase dell'allattamento. Ci sono pochi dati riguardanti la capacità del Thc di essere veicolato attraverso il latte materno, sebbene alcune ricerche preliminari ne abbiano evidenziato la presenza in tracce anche a distanza di sei giorni dall'accensione di una «canna». Inoltre, in questo caso, è ancora più difficile giungere a un messaggio privo di controversie, alla luce della complessità di un'analisi che dovrebbe riuscire a distinguere tra gli effetti provocati dall'esposizione in gravidanza e quelli dovuti invece a quella successiva. Nel dubbio, il consiglio è quello di evitare l'uso della marijuana alle donne in gravidanza o in allattamento. Una linea di condotta che trova d'accordo Riccardo Gatti, direttore del dipartimento dipendenze dell'Asst Santi Paolo e Carlo di Milano. «In un periodo in cui vengono promosse sopratutto le proprietà salutistiche della cannabis, come in passato avveniva con l'alcol e il fumo, s'è avvertita la necessità di opporsi al messaggio che vede la marijuana come una panacea. La marijuana è sempre stata utilizzata, ma gli ultimi dati che descrivono un trend costante dei consumi stanno portando a considerare il problema più urgente».
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L'INFORMAZIONE DEVE PARTIRE DAGLI SPECIALISTI
Oltre a rivolgersi alle donne e ai loro compagni, il documento dei pediatri statunitensi vuole essere una guida anche per i colleghi. A loro, oltre che ad altre figure chiave quali i medici di base, i ginecologi e gli ostetrici, gli esperti consigliano di «illustrare alle donne tutte le potenziali conseguenze per lo sviluppo del bambino derivanti dal consumo di marijuana in gravidanza». L'informazione dovrebbe cominciare fin dall'età adolescenziale, «anche alla luce dei dati più preoccupanti raccolti tra le gestanti più giovani». In ogni caso, secondo i medici statunitensi, la strategia vincente non è quella che vorrebbe vedere l'indice puntato nei confronti delle donne. Occorre orientare, sostenere e sviluppare la loro consapevolezza, «quando si è di fronte a una persona che fa uso di marijuana e ambisce ad avere un figlio» così come «quando una donna incinta dichiara di aver fatto uso di prodotti contenenti cannabinoidi per trattare la nausea e il vomito».
Fabio Di Todaro
Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).