Uno studio statunitense: se si induce il travaglio in una donna a termine, si riducono il numero di parti cesarei e le sofferenze per la mamma e per il neonato. Ma gli esperti italiani predicano prudenza
Indurre il travaglio nel corso della trentanovesima settimana, in donne alla prima gravidanza, può rappresentare un'opzione per ridurre il ricorso al taglio cesareo? Sì, secondo un gruppo di esperti statunitensi: senza per questo rappresentare un rischio, né per la mamma in attesa né per il bambino prossimo a venire alla luce. A riaccendere il dibattito sulla fasi finali della gravidanza è uno studio pubblicato sul New England Journal of Medicine, mirato a indagare due aspetti, nel confronto tra l'induzione del travaglio e la cosiddetta «vigile attesa». Ovvero: l'eventuale differenza nei tassi di morte perinatale e di complicanze ostetriche e, per l'appunto, il ricorso al parto cesareo. I risultati della ricerca sembrano «premiare» l'induzione, ma ciò non trova d'accordo gli esperti italiani.
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LA RICERCA AMERICANA
Alla ricerca, condotta da un gruppo di ricercatori dell'Università di Utah, hanno partecipato oltre seimila donne sane alla prima gravidanza. Gli specialisti le hanno suddivise casualmente in due categorie, a seconda del trattamento offerto: l'induzione del travaglio o l'attesa, che prevede l'intervento degli specialisti soltanto di fronte all'eventuale comparsa di complicanze. Lo scopo primario della ricerca era quello di rilevare eventuali differenze nella frequenza proprio di queste ultime. Il dato inferiore (4,3 per cento) ha riguardato le donne inserite nel primo gruppo, ma a colpire gli specialisti è stato quanto osservato relativamente al ricorso al parto cesareo. Le donne che hanno accettato di vedersi indurre il travaglio hanno partorito in media con una settimana di anticipo, ricorrendo con meno frequenza alla soluzione chirurgica: misurata nel 22,2 per cento delle gestanti rimaste in attesa, rispetto al 18,6 per cento rilevato nel gruppo di studio.
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Sulla base di questi dati, i ricercatori stimano che l'induzione del travaglio (negli Stati Uniti è cresciuta dal 9-10 per cento del 1990 al 22-23 per cento del 2012) nel corso della trentanovesima settimana potrebbe eliminare il ricorso a un taglio cesareo ogni 28 gravidanze. «Questo non vuol dire che tutte le donne dovrebbero essere indotte per accelerare il parto», avverte Robert Silver, a capo della divisione di medicina materno-infantile e co-direttore della pubblicazione. «Ma se si ragiona sull'opportunità di ridurre il ricorso al parto cesareo, siamo di fronte a una possibile possibile soluzione». Oltreoceano il ricorso alla chirurgia come evento conclusivo di una gravidanza riguarda il 32 per cento dei parti. Ma a preoccupare di più è che, rispetto al dato complessivo, otto parti cesarei su dieci avvengono in donne primipare e in buona salute, che ne potrebbero fare a meno.
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LO SCETTICISMO DEI GINECOLOGI ITALIANI
«La situazione di partenza è ben lontana dalla nostra - commenta Annamaria Marconi, direttore della clinica ostetrica e ginecologica dell'ospedale San Paolo di Milano -. Oltre la metà delle donne arruolate nello studio era obeso, una percentuale che non appartiene a nessuna delle regioni italiane. L'eccesso di peso è un fattore di rischio che aumenta le probabilità di ricorrere al cesareo, motivo per cui nel nostro caso non vi è la necessità di indurre il parto a scopo profilattico. Anzi: alla donna va sempre detto che una scelta del genere rende il travaglio più lungo e doloroso». Le fa eco Nicola Colacurci, a capo della struttura di ginecologia e ostetricia del policlinico dell'Università della Campania (Napoli). «L'induzione del parto deve avvenire soltanto in presenza di condizioni che determinano un rischio per la salute della donna o del nascituro, altrimenti si tratta di una procedura di medicalizzazione non necessaria. Un messaggio come quello che emerge da questo lavoro rischia di essere fuorviante, in una fase in cui cerchiamo di rispettare il più possibile la fisiologia della donna e chiediamo alle nostre gestanti di affidarsi a una struttura e non a un singolo specialista», chiosa lo specialista, che presiede l'Associazione dei Ginecologi Universitari Italiani (Agui).
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CESAREI IN CALO IN ITALIA
In Italia, nel 2016, il 24,5 per cento delle gravidanze s'è conclusa con un parto cesareo. Un tasso inferiore a quello statunitense, ma che peraltro presenta notevoli differenze a seconda della zona della Penisola considerata. La situazione regionale vede diverse realtà del centro nord sotto il venti per cento (Piemonte, Lombardia, Trento e Bolzano, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna e Toscana), mentre al primo posto tra le regioni meno virtuose si conferma la Campania, con una media intorno al 40 per cento, ma con punte oltre il 90. Anche Molise, Abruzzo e Puglia si confermano sopra la media nazionale. Sia chiaro: la procedura è generalmente sicura e, quando necessaria, salvavita. Ma comunque un parto cesareo è accompagnato da un rischio di complicanze più alto, sia per la donna sia per il bambino.
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QUANDO INDURRE IL PARTO?
Per quanto attese, le conclusioni dello studio «Arrive» non appaiono dunque candidate a modificare quella che è la prassi nei reparti di ostetricia italiani. L'induzione del parto a termine - dunque tra la 38esima e la 42esima settimana - si conferma necessaria in presenza di specifiche condizioni: superata la 41esima settimana di attesa (per evitare che la donna finisca la gravidanza oltre il termine, condizione che aumenta il rischio di morte in utero del feto), in caso di rottura prematura delle membrane amnocoriali che abbia superato le 24 ore e in presenza di qualsiasi condizione medica non più controllabile o in caso di comparsa a ridosso del parto (è il caso dell'ipertensione gestazionale). Come viene «anticipata» la conclusione della gravidanza? In maniera meccanica (inserendo un catetere che dilata il collo dell'utero) o farmacologica (con prostaglandine o ossitocina, che inducono le contrazioni).
Fonti
Fabio Di Todaro
Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).