I vantaggi sono solo ipotetici e non tengono comunque conto del rischio infettivo. In Italia la procedura non è autorizzata. Ecco i rischi a cui risultano esposti i medici che la permettono
Privo di fondamento e potenzialmente pericoloso. Il giudizio dei neonatologi italiani sul «Lotus birth» - modalità di parto caratterizzata dalla mancata recisione del cordone ombelicale alla nascita - è tranciante.
Gli esperti hanno avvertito la necessità di pronunciarsi in merito visto l’aumento delle richieste registrato negli ospedali italiani negli ultimi mesi, nonostante le linee guida ministeriali sul parto siano chiare, a riguardo.
La procedura non è contemplata e in caso di complicanze incombe il rischio di ripercussioni di natura giudiziaria per la struttura in cui è stata effettuata e per lo specialista che s’è assunto questa responsabilità.
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«LOTUS BIRTH»: DI COSA SI TRATTA?
Al termine del parto «Lotus» - chiamato così dal nome dell’infermiera californiana che lo ha richiesto per la prima volta nel 1974 alla nascita di suo figlio - la placenta e gli annessi fetali rimangono attaccati al neonato anche dopo il secondamento, ovvero l’ultima fase del parto che si consuma all’incirca un quarto d’ora dopo la nascita del neonato, con l’espulsione delle parti annesse.
Obiettivo del «Lotus birth» è quello di far avvenire spontaneamente la separazione del neonato dalla placenta. «Un processo che avviene tra i tre e i dieci giorni dopo, quando il cordone si secca e si distacca spontaneamente dall’ombelico», afferma Mauro Stronati, direttore della struttura di neonatologia e patologia neonatale del policlinico San Matteo di Pavia e presidente della Società Italiana di Neonatologia.
In questo periodo la placenta, trasportata sempre con il neonato, viene conservata in un sacchetto o in una bacinella e a volte viene cosparsa con sale grosso (favorisce l’essiccamento) e olio profumato (per nascondere il cattivo odore).
I fautori di questa pratica ritengono che con la «Lotus birth» il distacco avvenga quando bambino e placenta hanno concluso il loro rapporto. La scelta di praticare la «Lotus birth» riguarda spesso i parti in casa, ma in alcuni ospedali viene consentito ai genitori che la richiedono.
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NESSUN BENEFICIO E RISCHIO INFEZIONI ALTO
Sono diverse le ragioni che hanno spinto la Società Italiana di Neonatologia - negli scorsi mesi pronunciatasi anche sulla crescente tendenza al parto in casa - a prendere posizione sul tema.
Il beneficio è inesistente, sebbene la salute del nascituro dipenda dal suo rapporto con la placenta. «Mancano evidenze scientifiche che ne dimostrino la reale opportunità per la mamma e per il neonato. I vantaggi ipotizzati di un maggiore passaggio di sangue dalla placenta al neonato, infatti, vengono meno dopo pochi minuti, quando il cordone smette di pulsare». E la sicurezza risulta in discussione. «Il pericolo di infezioni che potrebbero mettere a rischio la salute e anche la vita del bambino non è infondato».
Eppure la richiesta negli ultimi mesi è stata crescente e ha finito per mettere in difficoltà gli stessi specialisti. Il rischio, in caso di complicanze, è quello di subire una denuncia per avere messo in atto una pratica non prevista dalle linee guida ministeriali.
In tema di responsabilità medica, infatti, «la legge Balduzzi prevede esenzioni di responsabilità in caso di comportamento conforme alle linee guida, presupponendo che le stesse siano corrette e congrue per il trattamento sanitario effettuato», hanno messo nero su bianco i legali consultati dalla Società Italiana di Neonatologia per un parere tecnico.
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VIETATO PORTARE LA PLACENTA FUORI DALL’OSPEDALE
Responsabilità che rimangono anche in presenza di un consenso informato firmato dagli stessi genitori richiedenti la «Lotus birth». Il documento risulta infatti inutile, in caso di azione legale successiva alla comparsa di una complicanza. A ciò occorre aggiungere, concludono i neonatologi, che «la placenta non può essere portata al di fuori dell’ospedale». Si tratta di un rifiuto speciale, che come tale va smaltito.
Fonti
Fabio Di Todaro
Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).