Intervista al sociologo del comitato etico di Fondazione Veronesi: «Le soluzioni scelte in emergenza la base del futuro del mondo del lavoro»
Oltre a rappresentare una sfida sanitaria, la pandemia di Covid-19 ha determinato un cambiamento importante nella modalità lavorativa. A causa del coronavirus, infatti, in poche settimane otto milioni di persone in Italia (tre miliardi nel mondo) si sono ritrovate a lavorare da casa. Una necessità che ha garantito anche la tenuta di alcuni comparti (società di energia, editoria, consulenza, organizzazioni non profit, banche, assicurazioni) nel periodo caratterizzato dalle restrizioni più severe (lockdown), ma che andrà probabilmente a modificare l’intero assetto socio-economico del nostro Paese. L’idea di lavorare lontano dall’ufficio - finora si è trattato perlopiù di home-working, ma l’ipotesi più allettante è rappresentata dallo smart working - è da molti considerata una novità assoluta. In realtà, però, c’è chi teorizza questo scenario da almeno un paio di decenni. Si tratta di Domenico De Masi, docente emerito di sociologia del lavoro alla Sapienza Università di Roma e fondatore della Società Italiana Telelavoro.
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LAVORO: UNA SVOLTA «AGEVOLATA» DALLA PANDEMIA
Obiettivo dell’istituzione era quello di indurre le aziende a usare il telelavoro e di spingere il governo a promuovere delle opportune leggi a riguardo. Un concetto teorizzato per anni e che, a cavallo tra l’inverno e la primavera scorsi, è divenuto realtà. «Il telelavoro si poteva applicare già da vent’anni, ma è stata necessaria una pandemia per portare otto milioni di persone a svolgere i propri compiti da casa», afferma De Masi, che interverrà nel corso della seconda giornata di «Science for Peace and Health», la conferenza mondiale organizzata da Fondazione Umberto Veronesi dal 9 al 13 novembre. Il pensiero lungimirante del sociologo, ospite di un webinar del ciclo «Qui Futuro» (clicca qui per rivederlo) è legato allo sviluppo della rete, grazie alla quale in realtà già tutti «tele-lavoriamo» (spesso senza accorgercene) dai luoghi di vacanza, in treno o nel tempo libero. In futuro quella che finora è stata vissuta in molti casi come una necessità - o una via senza uscita - potrebbe diventare un diritto. Ovvero: quello di lavorare in maniera agile, abbandonando l’idea di un controllo costante da parte del datore in lavoro in favore di una maggiore autonomia del dipendente. I vantaggi, secondo l’esperto e gli ormai tanti sostenitori di questa svolta, sarebbero diversi. Dal risparmio di tempo e denaro per il dipendente a una maggiore libertà d'azione che, nella quasi totalità dei casi, si traduce in un incremento della produttività.
Scarica il parere del Comitato Etico di Fondazione Umberto Veronesi dedicato alle disuguaglianze
SMART-WORKING OK PER 7 DIPENDENTI SU 10
Secondo De Masi, «nella tragedia che abbiamo vissuto, abbiamo avuto però la fortuna di essere protagonisti di un esperimento globale, che quasi certamente lascerà il segno». Il sociologo ne è convinto, «perché se il taylorismo non è ancora realtà a tutte le latitudini, lo è invece lo smart working». La svolta, in Italia, si è compiuta in una settimana a cavallo tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo scorsi. Non tutte le realtà avevano la stessa preparazione e hanno dimostrato la stessa prontezza nel trasferire gli uffici nelle case dei dipendenti. Ma rispetto alla sfida richiesta, con i necessari assestamenti, la metamorfosi si è materializzata comunque in un arco di tempo molto limitato. «A conti fatti, con uno smartphone, una buona connessione e un pc, ci siamo ritrovati protagonisti di una rivoluzione epocale». Sì, perché difficilmente si tornerà indietro. «La soluzione piace a molti lavoratori, ma in realtà anche a tanti dirigenti», afferma De Masi, che è membro del Comitato Etico di Fondazione Umberto Veronesi. Secondo un’indagine condotta da Manager Italia, il 70 per cento dei direttori generali e amministratori delegati intervistati è favorevole a portare avanti il telelavoro e lo smart-working anche oltre la pandemia.
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DIPENDENTI FLESSIBILI E PRODUTTIVI
Un dato che è la conseguenza dell’aumentata produttività riscontrata da molti di loro da parte dei rispettivi dipendenti, anche nel corso dei mesi caratterizzati dal lockdown più duro (marzo-maggio 2020). Naturalmente il passaggio a una reale cultura di lavoro agile deve essere accompagnato da idonee iniziative di formazione e comunicazione, che potranno portare, a quel punto, alla realizzazione della filosofia agognata. «E con l’intelligenza artificiale, anche professionisti a cui ora è negata questa opportunità potranno lavorare connettendosi con chi è anche a migliaia di chilometri di distanza - spiega il sociologo -. Come esempio, le cito quello del chirurgo che, grazie ai progressi della telemedicina, potrà operare un paziente che si trova in un altro continente. E contribuire così anche alla riduzione delle disuguaglianze che ci sono nell’accesso alle cure, tra le zone più ricche e quelle più povere del mondo».
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L'ESEMPIO DELLA GERMANIA
Come spesso accade, ogni rivoluzione porta con sé un rovescio della medaglia. Se le nuove ere aperte dalla scoperta della meccanica e del digitale hanno aperto la strada al congedo di una quota di operai e impiegati, la diffusione dell’intelligenza artificiale potrebbe determinare una riduzione dei posti anche per chi svolge lavori creativi. Secondo De Masi, però, non è il caso di agitare fantasmi. «Una riduzione del numero di lavoratori è più che probabile, ma si può anche lavorare di meno, creare più ricchezza e favorirne una maggiore diffusione: a scapito di quella attuale, limitata a una quota minoritaria della società. Così facendo, ci sarebbe comunque la possibilità di offrire un’occupazione a tutti coloro che ne avranno bisogno». L’esempio da seguire, secondo l’esperto, è quello della Germania. «Se equiparassimo il nostro orario di lavoro (40 ore settimanali, ndr) a quello dei tedeschi (32, ndr), avremmo sei milioni di posti in più e l'occupazione potrebbe salire dai 23 milioni attuali ai 29 milioni. Così facendo, recupereremmo almeno tre milioni di disoccupati che pesano sull'economia del Paese».
Fabio Di Todaro
Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).