Dagli Stati Uniti giunge una conferma all’approccio adottato anche in Italia: no alla ricerca di massa della celiachia nelle persone che non lamentano disturbi
Un no secco: senza se e senza ma. Passare al setaccio tutta la popolazione per riconoscere i casi di celiachia prima della comparsa dei sintomi è un’operazione non suffragata dall’evidenza scientifica.
Il messaggio giunge dalla task force di esperti statunitensi che periodicamente riesamina le prove di efficacia e sviluppa le raccomandazioni utili ai fini della prevenzione delle malattie.
Gli esperti, in un documento pubblicato sul Journal of the American Medical Association, hanno confermato quello che è l’approccio in uso anche in Italia. «Non c’è motivo per sostenere uno screening di popolazione che coinvolga le persone asintomatiche».
NO ALLO SCREENING DI POPOLAZIONE PER LA CELIACHIA
Il messaggio, nella sua chiarezza, contribuisce a sgomberare il campo dalle errate informazioni che da qualche anno spesso accompagnano la celiachia. Una di queste è quella secondo cui per ogni individuo sarebbe utile sapere, attraverso un esame del sangue che dosi gli anticorpi anti-transglutaminasi, se sia celiaco o meno.
L’iter, in realtà, non sarebbe comunque così veloce. A esclusione dei bambini, nei soggetti positivi al test occorre poi effettuare una biopsia del duodeno: necessaria per avere conferma della diagnosi. Prelievo e gastroscopia non sono in realtà privi di conseguenze per chi vi si sottopone.
Il rischio, come sottolineano gli esperti, è legato «alla potenziale presenza di falsi positivi, all’ansia che si genera in una persona e alle potenziali complicanze che accompagnano un test comunque invasivo come la gastroscopia».
Ma, soprattutto, «le evidenze sono insufficienti, in termini di efficacia». Un messaggio che secondo gli specialisti deve essere diffuso anche a coloro i quali possono essere definiti soggetti a rischio: ovvero i parenti di primo grado dei celiaci già in possesso di una diagnosi, le persone affette da un’altra malattia autoimmune (diabete di tipo 1, tiroidite di Hashimoto, sindrome del colon irritabile, nefropatia autoimmune), o da un disordine genetico (sindrome di Down, sindrome di Turner).
In questo secondo caso, però, la posizione è differente rispetto a quella della società statunitense di gastroenterologia e degli Istituti Nazionali di Salute, che ai parenti di primo grado dei celiaci raccomandano comunque lo screening: anche se asintomatici.
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Su questo secondo punto, relativamente allo screening in presenza di altre malattie autoimmuni, in realtà anche in Italia l’approccio è meno drastico.
Almeno per quel che riguarda la possibile compresenza tra la celiachia e il diabete di tipo 1. «Circa la necessità di eseguire lo screening per la celiachia, non tutti i pareri sono univoci - afferma Riccardo Troncone, direttore clinica pediatrica dell’Università Federico II di Napoli -.
Tra i vantaggi riconosciuti allo screening della celiachia nei pazienti diabetici, quello principale è certamente di ordine nutrizionale: soprattutto per quanto attiene al malassorbimento di vitamina D e calcio, con conseguente demineralizzazione ossea, osteoporosi e aumentato rischio di fratture prima dei cinquant’anni. L’ottimizzazione del controllo glicemico ed anche la dieta priva di glutine possono prevenire l’osteopenia.
Mentre per quanto riguarda infine i vantaggi dello screening sul controllo metabolico del diabete, non vi è un’evidenza condivisa in letteratura». Meno diffuso è lo screening per i pazienti affetti dalle altre malattie: in ragione di un minor beneficio documentato, ma pure della ridotta incidenza.
Nel nostro si tende invece a ricercare la malattia almeno nei figli di donne celiache. In linea generale, invece, lo screening di popolazione non è finora mai stato considerato anche in considerazione del fatto che la celiachia può insorgere a qualunque età.
Dunque non è detto che un bambino negativo alla ricerca degli anticorpi specifici in età scolare non possa in seguito sviluppare la malattia, che insorge a seguito del contatto con il glutine.
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La crescente diffusione della celiachia - 190mila i pazienti con diagnosi certa in Italia, ma l’Associazione Italiana Celiachia sospetta che siano almeno il triplo - ha avuto un duplice effetto sulla popolazione: da una parte la ricerca spasmodica di una risposta certa circa un’eventuale diagnosi anche in assenza di sintomi, dall’altra l’adozione della dieta senza glutine anche da parte dei soggetti sani.
Un comportamento, quest’ultimo, che pone a rischio il valore di un regime alimentare che in realtà equivale a una terapia, per i celiaci. Ma che sembra difficile da arginare, visti i falsi miti che accompagnano la «dieta gluten-free».
«Non c’è un solo studio che evidenzi che faccia perdere peso», mette in guardia Guido Di Fabio, presidente dell’Associazione Italiana Celiachia, che dal 14 al 21 maggio organizza la Settimana Nazionale della Celiachia: un’occasione per fare corretta informazione ed educazione in tema alimentare.
Anzi. Una ricerca appena apparsa sulle colonne del British Medical Journal, ha evidenziato come l’esclusione del glutine nei non celiaci non riduce il rischio cardiovascolare, ma si associa in realtà a una riduzione del consumo di cereali integrali, con possibili effetti negativi proprio sul rischio cardiovascolare.
Fabio Di Todaro
Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).