Ricerca su donne sottoposte a stimolazione ovarica per fecondazione in vitro evidenzia probabilità di tumore al seno identiche al resto della popolazione
Il desiderio di avere un figlio, nel corso della vita, può far accantonare tutte le altre preoccupazioni. Ma tra le donne hanno affrontato una gravidanza dopo essersi sottoposte a una procedura di fecondazione in vitro, prima o poi può sorgere un pensiero: quali conseguenze rischia di avere la stimolazione ormonale sulla salute? Oggi, a più di trent’anni dalla prima fecondazione in vitro, si può affermare che le donne che hanno affrontato questo percorso non corrono un rischio superiore di ammalarsi di tumore al seno, rispetto alla popolazione sana.
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EVIDENZE RASSICURANTI PER LA FECONDAZIONE IN VITRO
Da uno studio condotto da un gruppo di ricercatori olandesi e pubblicato sul Journal of the American Medical Association si evince che no, le signore che si sono sottoposte a un trattamento di stimolazione ovarica per procedere alla fecondazione assistita non hanno maggiori probabilità di ammalarsi del più diffuso tumore femminile (quarantottomila le nuove diagnosi conteggiate nel 2015). La conclusione consolida alcune evidenze emerse negli ultimi anni. Già nel 2013, infatti, un gruppo di ricercatori israeliani e statunitensi aveva pubblicato su Fertility and Sterility i dati di una ricerca che escludeva il rischio oncologico, di cui sarebbe eventualmente responsabile il surplus di ormoni (estrogeni e progesterone) che si genera nel tentativo di indurre l’ovulazione e che può contribuire all’insorgenza di alcuni tumori al seno, all’ovaio e all’utero. Per questo motivo, prima di cominciare un trattamento, si consiglia alle donne con più di 33-35 anni di sottoporsi a una ecografia mammaria o a una mammografia. Quest’ultimo lavoro, visti i numeri, offre nuove rassicurazioni.
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NESSUN RISCHIO AUMENTATO A VENT’ANNI DAL TRATTAMENTO
Gli studiosi hanno analizzato il rischio a lungo termine (vent’anni) di ammalarsi di cancro della mammella in un gruppo di oltre diciannovemila donne sottopostesi a una procedura di fecondazione in vitro tra il 1983 e il 1995 nei dodici centri autorizzati a effettuare procedure di procreazione medicalmente assistita nei Paesi Bassi. Gli autori hanno valutato altri fattori potenzialmente correlati allo sviluppo di una neoplasia, come l’età del primo concepimento, il numero di parti e i tentativi di fecondazione in vitro affrontati. Hanno poi rilevato, facendo ricorso al registro tumori nazionale, quante di queste donne si fossero ammalate di tumore al seno (invasivo o in situ) e hanno poi posto a confronto questo dato con quello analogo dedotto da un pool di quasi seimila donne che si erano sottoposte a trattamenti che non prevedevano la stimolazione ovarica e con quello relativo a un campione rappresentativo della popolazione generale.
Valutando lo stato delle donne all’età di 55 anni, a due decenni (in media) di distanza dai trattamenti, l’incidenza cumulativa del tumore al seno era pari al tre per cento nel gruppo che s’era sottoposte alla stimolazione ormonale e al 2,9 per cento tra tutte le altre. Curioso, ma rassicurante, l’evidenza che vedrebbe le donne sottopostesi a sette o più cicli di stimolazione ovarica accompagnate da un rischio di malattia inferiore rispetto a quelle trattate con uno o due cicli. «Ciò significa che all’aumentare delle volte in cui ci si sottopone al trattamento, non cresce il rischio di ammalarsi di cancro», fa sapere la Società americana di medicina della riproduzione.
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ALCUNI ASPETTI RESTANO DA CHIARIRE
I risultati dello studio hanno avuto ampia eco, in considerazione della diffusione delle tecniche di riproduzione assistita che in poco più di trent’anni hanno donato la vita a oltre cinque milioni di bambini nel mondo (12.658 in Italia nel 2015). «Oggi sappiamo che, almeno fino a due decenni dopo il trattamento, non esiste alcuna evidenza che provi un aumentato rischio di ammalarsi di tumore al seno, per le donne che si sono sottoposte alla fecondazione in vitro», è il commento di Saundra Buys, oncologa dell’Huntsman Cancer Institute di Utah, non coinvolta nella ricerca. Nuove rassicurazioni, dunque, ma su alcuni punti occorre ancora indagare. Per esempio soltanto il 14 per cento delle partecipanti aveva raggiunto i sessant’anni d’età: motivo per cui è impossibile azzardare ipotesi sul rischio di cancro al seno nell’età post-menopausale.
È necessario anche considerare che, rispetto agli anni ’80 e ’90, il ventaglio di soluzioni per la stimolazione ormonale s’è ampliato e per le ultime non ci sono ancora dati riguardanti il rischio oncologico. Ancora aperto è pure il fronte che indaga la possibile correlazione tra la stimolazione ovarica e il rischio di sviluppare tumori ginecologici (alle ovaie o all’utero) su cui potrebbero influire la stimolazione ormonale e i traumi meccanici subiti dagli organi. L’analisi pubblicata nel 2013 su Fertility and Sterility aveva dimostrato che il rischio non risultava aumentato per l’endometrio, mentre un possibile legame poteva esserci rispetto al cancro ovarico. Ma i dati non sono ancora sufficienti per trarre conclusioni. Pertanto l’unica raccomandazione valida è quella che invita le donne che si sottopongono a più cicli di stimolazione ovarica a sottoporsi con maggior frequenza a una visita ginecologica.
Fabio Di Todaro
Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).