L'obiettivo del progetto Interceptor è definire chi potrà essere trattato con i farmaci (costosi) che nei prossimi anni potrebbero rivelarsi in grado di rallentare la progressione della malattia di Alzheimer
Vent’anni di ricerche non sono bastati a mettere a punto una cura efficace. L'Alzheimer, la più diffusa forma di demenza senile, è uno dei maggiori crucci degli scienziati. Le cause sono in buona parte note, anche se sui meccanismi molecolari ci sono ancora diversi tasselli da mettere al proprio posto. Ma è sulle possibili terapie che si è più indietro. Così, messi da parte i sogni di gloria del recente passato, oggi l'obiettivo è più realistico: identificare le persone colpite dalle forme prodromiche della malattia per provare ad arrestarne il decorso con quelli che sono i farmaci attualmente in fase di sperimentazione, da cui ci si aspetta un «effetto-freno» nei confronti del decadimento cognitivo.
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IL NOSTRO PAESE E' IL PIU' VECCHIO D'EUROPA
Vivendo nella nazione più anziana d'Europa, a livello globale seconda soltanto al Giappone, gli scienziati italiani hanno deciso di prendere di petto la questione. D'altra parte le demenze rappresentano già una piaga sociale lungo la Penisola, se a soffrirne sono poco meno di un milione di persone (e di famiglie), con seicentomila di loro affetti dall'Alzheimer. Da qui la decisione di congiungere le risorse, con il Ministero della Salute e l'Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa) pronti a investire per riconoscere le persone più a rischio, da trattare eventualmente prima degli altri. Il coordinamento scientifico del progetto - «Interceptor» il suo nome - è affidato a Paolo Maria Rossini, responsabile della struttura complessa di neurologia del Policlinico Gemelli di Roma. «L'obiettivo è individuare il biomarcatore o l’insieme di biomarcatori più accurati e definire uno schema organizzativo in grado di fornire a tutti i cittadini libero accesso a questa modalità di screening preventivo ed, eventualmente, a una cura». Questo potrebbe tradursi nella prognosi più precisa possibile, in maniera poco invasiva. Oltre che nella disponibilità di una valutazione su tutto il territorio nazionale, con un costo alla portata del Servizio Sanitario Nazionale.
UN'OPPORTUNITA' PER SETTECENTOMILA PERSONE
Poiché i costi degli eventuali trattamenti saranno elevati e i rischi di effetti collaterali significativi, considerando che soltanto la metà dei soggetti a rischio si trova realmente in una fase prodromica, candidati dunque a sviluppare la malattia, la necessità di ragionare su uno screening di massa appare ormai improcrastinabile: per ragioni cliniche ed economiche. Le stime degli esperti dell'Istituto Superiore di Sanità dicono che l'opportunità, se fossi oggi disponibile, riguarderebbe settecentomila persone: di cui all'incirca la metà candidate ad ammalarsi di demenza. Il grande studio che s'appresta a partire prevede un investimento complessivo di quattro milioni di euro, a essere coinvolte saranno 400 persone. Il progetto punta a identificare chi delle persone con un deterioramento cognitivo lieve è suo malgrado candidata a sviluppare l'Alzheimer. «Queste persone hanno un rischio più alto del venti per cento rispetto al resto della popolazione», precisa Rossini.
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COSÌ IDENTIFICHEREMO LE PERSONE A RISCHIO ALZHEIMER
Si procederà per step. Obiettivo: stabilire quale sia la combinazione più efficace in termini di sensibilità e specificità, fattibilità e sostenibilità di costi. Alle persone arruolate - saranno 15 i centri coinvolti su tutto il territorio nazionale - sarà somministrato un test neuropsicologico per valutare la performance cognitiva, considerata attendibile per valurare la progressione verso la demenza. Dopodiché tutti saranno sottoposti a un elettroencefalogramma, a una risonanza magnetica, alla «Fdg Pet» (misura il metabolismo cerebrale), alla «Pet amiloide» (rileva i livelli di proteine beta-amiloide e tau), al dosaggio di alcune proteine su campioni di liquor cefalorachidiano, oltre all'esame del Dna per valutare il rischio genetico. Il follow up è fissato a tre anni, «per vedere quale combinazione di biomarcatori si sia rivelata più attendibile per misurare con maggiore precisione l'evoluzione della malattia», prosegue Rossini.
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I FARMACI IN SPERIMENTAZIONE
I farmaci che completeranno l'iter sperimentale da qui a cinque anni appartengono alla categoria degli anticorpi monoclonali: alcuni dei quali si sono rivelati in grado di attaccare le placche di beta-amiloide, la proteina che si accumula nel cervello, danneggiando i neuroni. «Gli studi confermano che il vento sta cambiando - conferma Rossini -. La svolta, se ci sarà, sarà dovuta a un cambio di paradigma: oggi puntiamo ad anticipare la fase di intervento per avviare la somministrazione dei farmaci». Ma occorre individuare un percorso per distinguere i soggetti a rischio molto elevato da quelli con basso o nessun rischio. Eccolo, l'obiettivo di «Interceptor».
Fabio Di Todaro
Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).