Le conclusioni degli studi epidemiologici non sempre vengono confermate in laboratorio. Più che un singolo alimento, è la qualità complessiva della dieta a fare la differenza
Rispondere a questa domanda non è facile. Gran parte delle informazioni in nostro possesso sugli effetti di un certo alimento sul rischio di sviluppare un tumore derivano da studi epidemiologici, nei quali si valuta una popolazione nell’arco del tempo andando a misurare l’assunzione di un determinato cibo nella dieta e lo sviluppo di particolari tumori.
È grazie a questa tipologia di studi che si è potuto nel tempo dimostrare che chi mangia carne rossa ha una più alta incidenza di tumori del colon-retto. L’epidemiologia, però, non sa dirci perché: per scoprirlo, dobbiamo indagare a livello molecolare (e quindi in laboratorio) la composizione stessa del cibo, e vedere quali meccanismi molecolari sono attivati da essa. Il fatto che il tutto si svolga in laboratorio non è elemento da sottovalutare. Le analisi si svolgono in un ambiente controllato, dove si studia l’utilizzo di un unico nutriente (quello in esame di cui vogliamo scoprire i meccanismi), e spesso in dosi elevate, difficili da raggiungere a tavola.
Non solo: difficilmente è possibile ricreare in laboratorio la composizione di un alimento. In laboratorio si studia la vitamina C ad alte dosi, mentre a casa mangiamo un’arancia, che al suo interno è ricca di vitamina A, potassio, calcio, zuccheri e molto altro. E spesso si scopre che è proprio l’alimento naturale quello che funziona, mentre il singolo nutriente non sembra avere effetti protettivi.