Le malattie infettive sono ancora uno dei grandi rischi per la salute globale. Cosa possiamo imparare dall'epidemia di nuovo Coronavirus? L'editoriale di Paolo Veronesi
Forse ce lo eravamo dimenticato. Nel nostro mondo fatto di acqua pulita e cibo sicuro, di pratiche igieniche quotidiane, di antibiotici e di vaccinazioni disponibili per tutti ci eravamo dimenticati che le malattie infettive sono ancora uno dei grandi rischi per la salute globale.
CONSAPEVOLEZZA
Eppure alle patologie derivate da infezioni dobbiamo circa un quarto dei decessi nel mondo, un impatto numericamente concentrato nei paesi meno industrializzati, a tutt’oggi flagellati da patogeni antichi che la medicina non è ancora riuscita a cancellare dalla faccia della Terra. Come la tubercolosi (1,5 milioni di vittime nel 2018) o la malaria (228 milioni di casi nel 2018). Altre invece, come le sepsi batteriche, sono in aumento proprio fra i nostri malati e dentro i nostri ospedali, e preoccupano soprattutto alla luce della crescente resistenza agli antibiotici. Alcune patologie sono state quasi sconfitte grazie alla disponibilità di vaccini efficaci, come la poliomielite che è passata da 350.000 casi stimati nel 1988 a 33 nel 2018. Altre malattie infettive, invece, arrivano da patogeni nuovi. È il caso di questa pandemia da nuovo Coronavirus, che all’improvviso ci proietta in un mondo che fatichiamo a riconoscere, fatto di emergenze e strade vuote.
RESPONSABILITA’
Se solo nelle prime settimane di gennaio ci sembrava una notizia lontana, oggi il Coronavirus e le polmoniti (Covid-19) che provoca in una parte della popolazione colpita ci hanno costretti a cambiare pesantemente le nostre vite. Restiamo a casa perché questa malattia, che pure sembra avere una letalità relativamente bassa, ha la potenzialità di mandare in ospedale e in terapia intensiva più persone di quanto il nostro sistema sanitario possa accogliere e curare. Non possiamo permetterci di lasciar circolare questo nuovo virus perché non abbiamo ancora un vaccino e il suo impatto soprattutto sulle persone più fragili comporta cure complesse, lunghe e non sempre risolutive, purtroppo. A risolvere l’emergenza non sono chiamati solo i sanitari e le istituzioni, ma ciascuno di noi. Il virus si contiene solo se ciascuno di noi fa la sua parte, sta in casa, limita al massimo i contatti interpersonali e segue le indicazioni date dagli esperti.
PREPARAZIONE
“Il mondo affronterà un’altra pandemia influenzale. L’unica cosa che non sappiamo è quando colpirà e quanto sarà severa”. Così all’inizio del 2019 l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) includeva fra le minacce per la salute globale le grandi epidemie influenzali e la comparsa di patogeni ad alto rischio. Fra questi ultimi si annoverano anche le infezioni da virus Zika, le febbri emorragiche come Ebola, le epidemie da coronavirus come la MERS e la SARS, responsabili di gravi malattie ai danni dell’apparato respiratorio. Sono nati reti di sorveglianza e di intervento, sistemi di reazione rapida per minimizzare l’impatto sulla vita delle persone e sull’economia dei paesi colpiti. L’OMS avvertiva anche che sarebbe prima o poi arrivata una “malattia X”, ancora sconosciuta ma capace di causare una epidemia globale. Si tratta di quest’ultima SARS-CoV-2? Ne ha tutte le caratteristiche, ma il punto è che ciò di cui ci stavano avvisando gli esperti è che organizzarsi per rispondere alle malattie note non basta più. La parola d’ordine è “prepararsi”, anche a emergenze sanitarie nuove, mai viste, che richiedono, dunque, risposte mai sperimentate e per le quali non abbiamo esperienze o dati consolidati a guidarci.
CONDIVISIONE
C’è un aspetto positivo, secondo me, emerso finora dalla vicenda Coronavirus. Ed è che gli esperti nel mondo si parlano, le istituzioni nazionali e sovranazionali condividono informazioni, anche in tempi rapidi, e in una misura ancora molto (troppo) limitata condividono anche alcune decisioni. Tutto questo non è scontato, fino a pochi anni fa accadeva che le scoperte restassero spesso chiuse nei laboratori e custodite da chi se ne sentiva proprietario, perché magari aveva investito grandi risorse per arrivarci. Oggi, anche grazie alla tenacia di una grande virologa italiana, Ilaria Capua, la comunità scientifica condivide in database aperti le conoscenze indispensabili per affrontare la situazione: “I miei dati diventano i nostri dati; l’intelligenza diventa collettiva; cresce sì la competizione ma si allargano anche la conoscenza e la collaborazione internazionale”.
SOSTEGNO A RICERCA E SANITÀ
Si vis pacem para bellum, dicevano i latini. Se vuoi la pace preparati alla guerra. Se parliamo di crisi sanitarie, questo ci rammenta che nella ricerca bisogna investire sempre, soprattutto quando le cose vanno bene, quando non c’è la paura che la capacità di assistenza sanitaria di intere regioni vada al collasso. Sappiamo che in Italia la ricerca scientifica non viene considerata una parte strategica per lo sviluppo del Paese, a giudicare dalla distrazione generale. Tutti, dai singoli individui sino alle istituzioni che decidono l’allocazione delle risorse e le politiche economiche, tendiamo ad attivarci sulle emergenze, a rimboccarci le maniche sulle preoccupazioni. Da questa crisi, mi auguro, arriveranno finanziamenti che restituiranno forza e dignità al nostro sistema sanitario pubblico (universalistico e solidale), che dopo anni di tagli sta rispondendo a questa situazione drammatica con una capacità eccezionale. Mi auguro che arriverà il sostegno necessario a riportare ossigeno anche alla ricerca in virologia, un settore particolarmente “abbandonato” negli ultimi anni. Spero che così riusciremo a dare risposte alle tante domande che ancora abbiamo, a trovare strumenti diagnostici e terapeutici nuovi, efficaci e utilizzabili su larga scala. Riusciremo a studiare le strategie migliori e meno dolorose per contenere la diffusione del contagio. Ne abbiamo bisogno per contrastare questa epidemia, che colpisce particolarmente le persone fragili, i nostri cari malati, i nostri anziani, i cardiopatici, i pazienti oncologici, i disabili. La ricerca non va a compartimenti stagni e non funziona solo con le chiamate d’emergenza. Ricordiamocene anche quando saremo ritornati alla nostra normalità, perché anche da questo dipenderà la nostra capacità di rispondere alla prossima “malattia X”.
Paolo Veronesi
Presidende Fondazione Umberto Veronesi