Alessio Reggio studia le alterazioni nei meccanismi che «riciclano» il materiale cellulare, che potrebbero essere sfruttati per rendere il rabdomiosarcoma sensibile ai farmaci
Il rabdomiosarcoma è un tumore raro che colpisce la muscolatura striata, specialmente in età pediatrica e adolescenziale. Sebbene si tratti di un tumore raro (l'incidenza annuale è di un individuo ogni 170mila), rimane uno dei tumori solidi più comuni nei bambini e negli adolescenti e il decorso patologico viene spesso aggravato dallo sviluppo di metastasi.
Le attuali terapie si basano su trattamenti chemioterapici accoppiati a chirurgia. Quest’ultima, per essere efficace, spesso comporta però una rimozione consistente del tessuto muscolare sano per avere la certezza di rimuovere completamente tutte le cellule cancerose. È possibile migliorare l’efficienza delle attuali terapie?
Questo è l’obiettivo che si è posto Alessio Reggio, biologo e ricercatore presso il Telethon Institute of Genetics and Medicine (TIGEM) di Pozzuoli (Napoli), che svolgerà il suo progetto di ricerca grazie a una borsa di ricerca di Fondazione Umberto Veronesi nell’ambito del progetto Gold for Kids.
Alessio, parlaci del tuo lavoro sul rabdomiosarcoma.
«Il rabdomiosarcoma è un tumore raro che colpisce la muscolatura striata e le attuali terapie chirurgie, oltre a rimuovere la massa tumorale, portano inesorabilmente alla perdita di tessuto muscolare sano. L’obiettivo del mio progetto è di superare le attuali limitazioni terapeutiche modulando i sistemi di degradazione delle proteine, in particolare l’autofagia».
Cos’è l’autofagia e che legame esiste con questo tumore?
«Il processo autofagico è una forma di auto-cannibalismo che le cellule mettono in atto al fine di riciclare o rimuovere le componenti cellulari danneggiate, contribuendo così alla loro sopravvivenza. Quello che oggi sappiamo è che gli equilibri autofagici sono alterati in molte forme tumorali e un loro ripristino contribuisce a rendere sensibili le cellule tumorali alle terapie, incrementando le prospettive di sopravvivenza dei pazienti».
Quindi vorresti agire sull’autofagia per migliorare i trattamenti.
«Sì. Tuttavia il ruolo che l’autofagia gioca nella sopravvivenza e nella progressione dei sarcomi molli rimane un tema poco studiato e che merita di essere compreso per sviluppare nuove strategie. Nel mio progetto userò un nuovo sistema di “forbici molecolari”, chiamato CRISPR-Cas9, che consente la modifica del Dna in modo preciso e puntuale. Così facendo potrò analizzare singolarmente i geni coinvolti nel processo dell’autofagia, per scovare quelli essenziali per la crescita e sopravvivenza del rabdomiosarcoma. I risultati, a lungo termine, permetteranno di sviluppare nuovi approcci basati sulla modulazione dell’autofagia, da soli o in combinazione con altre terapie antitumorali, per eradicare con efficienza le cellule tumorali».
Raccontaci la tua giornata tipo in laboratorio.
«È facile indicare un’ora di inizio, ma non quella di uscita. Generalmente, la giornata si protrae ben oltre le 18 a causa di esperimenti dell’ultimo minuto, dell’analisi di dati importanti o per la curiosità di osservare immagini al microscopio che possono confermare ipotesi formulate ore prima. Il laboratorio ricorda una seconda famiglia, con la quale condividere gioie e dolori, successi e sconfitte».
Perché hai scelto di intraprendere la strada della ricerca?
«Non penso ci sia stato un momento ben preciso, è una strada che si percorre fondamentalmente perché si è curiosi. Diciamo però che il “piccolo chimico” e il “mio primo microscopio” hanno contribuito a farmi amare questo lavoro».
Dove ti vedi fra dieci anni?
«Sono particolarmente affezionato a questa domanda perché mi è stata rivolta ben quattro anni fa. All'epoca prevedevo un impeccabile percorso di dottorato, un eccellente periodo post-dottorato in un laboratorio competitivo e, in ultimo, di gettare le basi per creare un mio gruppo di ricerca. Oggi sono a metà del percorso e la mia risposta non cambia molto. Tra dieci anni mi vedo a dirigere un gruppo di giovani ricercatori, sperando di infondere la stessa passione e gli insegnamenti che mi hanno spinto fin qui».
Cosa ti piace di più della ricerca?
«La condivisione di esperienze, sensazioni ed emozioni che si collezionano durante le giornate in laboratorio. Sentire che ci si entusiasma per un esperimento che va nella giusta direzione, per un piccolo successo scientifico e per una meritata pubblicazione, non ha prezzo».
E cosa invece eviteresti volentieri?
«Eviterei volentieri il sistema universitario che non fornisce ai giovani ricercatori, nessuna garanzia sul loro futuro. Eviterei l’ombra del precariato che incombe ogni anno e che condiziona molte delle nostre scelte, su tutto la possibilità di costruire una famiglia».
Se ti dico scienza e ricerca, cosa ti viene in mente?
«I momenti indimenticabili passati gomito a gomito con i miei colleghi che hanno reso indimenticabile il mio percorso fino a oggi».
Cosa avresti fatto se non avessi fatto il ricercatore?
«Forse avrei intrapreso la vita dello scrittore. Mi piace molto leggere e appuntare le mie riflessioni. Il mio sogno nel cassetto è quello di scrivere un libro».
Percepisci del sentimento antiscientifico in Italia?
«Non penso ci sia un sentimento antiscientifico, ma semplicemente che le persone non sappiano cosa voglia dire fare scienza, sacrificarsi trascurando amici, famiglie e affetti per stare 13 ore al giorno in laboratorio».
Alessio nel tempo libero.
«Sono un grande amante della bicicletta e del biliardo. Quando ho un paio di ore libere le occupo o pedalando o imbucando qualche pallina».
Hai famiglia?
«Attualmente no, ma rientra nei miei progetti futuri».
Se un giorno tuo figlio o figlia ti dicesse che vuole fare il ricercatore, come reagiresti?
«Sarei orgoglioso e avrebbe tutto il mio appoggio. Forse sarei più felice se mi dicesse di voler fare l’influencer, visti gli attuali introiti economici».
Una cosa che vorresti assolutamente fare almeno una volta nella vita.
«Soggiornare su un’isola deserta».
Sei felice della tua vita?
«Sì. Ho fatto molte rinunce, ma ho avuto anche molte soddisfazioni».
Con quale personaggio famoso ti piacerebbe cenare una sera e cosa ti piacerebbe chiedergli?
«Scelgo il fisico britannico Peter Higgs. Chissà cosa pensa ora che ha vinto il premio Nobel, 50 anni dopo un’intuizione maturata durante una passeggiata. La ricerca è curiosità, intuizione, dedizione, perseveranza e spesso fortuna, e penso che lui incarni tutte queste caratteristiche. Ovviamente pago io».