La proteina STAT3 è al centro dell’alterazione metabolica dei tumori, che fornisce loro energia per sopravvivere. Annalisa Camporeale la studia per scoprire come evitare la resistenza alle terapie
La cellula cancerosa ha caratteristiche metaboliche peculiari. Rispetto alle cellule normali, per produrre l’energia necessaria per sopravvivere utilizza prevalentemente la glicolisi aerobica (la scissione del glucosio), secondo un fenomeno noto come “effetto Warburg”. La glicolisi aerobica avviene sia nelle cellule tumorali che in quelle sane, ma quelle malate dipendono da questo processo molto più del normale. Ecco perché è necessario studiare a fondo le vie metaboliche che risultano alterate nelle cellule cancerose, e che permettono al tumore di sopravvivere. La proteina STAT3 è coinvolta in numerose funzioni cellulari, sia in condizioni normali che patologiche. È ad esempio implicata in molteplici vie di segnalazione pro-tumorali e nella resistenza a molti chemioterapici; ha un ruolo chiave nell’indurre infiammazione, spesso associata allo sviluppo di un cancro; ed è stabilmente attiva nel 70% dei tumori umani, che risultano dipendenti dalla sua attività. STAT3 regola inoltre il metabolismo energetico tumorale, favorendo la glicolisi aerobica e proteggendo così la cellula tumorale da morte. Comprendere i meccanismi molecolari che permettono a STAT3 di regolare le funzioni metaboliche potrà aiutare a identificare nuovi bersagli terapeutici che aiutino a contrastare la resistenza ai trattamenti antitumorali. Di questo si occupa Annalisa Camporeale (nella foto), biologa milanese che grazie a Fondazione Umberto Veronesi lavora come post-doc presso il Centro di Biotecnologie Molecolari dell’Università di Torino.
Annalisa, parlaci più nel dettaglio del tuo progetto.
«Il mio lavoro si propone di studiare il ruolo metabolico di STAT3 nel processo tumorale e nella resistenza che le cellule colpite dalla malattia oppongono ai farmaci. In particolare, abbiamo scoperto che STAT3 interagisce con una proteina-canale che regola il flusso di ioni calcio tra il reticolo endoplasmatico e i mitocondri. Questo processo è in grado di determinare la morte cellulare. Comprendere meglio la natura di questa interazione ci aiuterà a conoscere i meccanismi caratteristici delle cellule normali e le loro alterazioni nelle cellule tumorali».
Quali prospettive apre questo progetto, anche a lungo termine, per la conoscenza biomedica?
«Oltre ad una maggiore conoscenza di base del comportamento delle cellule tumorali, questo studio ci permetterà di individuare i meccanismi potenzialmente coinvolti nella loro resistenza ai comuni trattamenti chemio e radioterapici, permettendoci di sviluppare nuove strategie antitumorali mirate. Avere la possibilità di modulare questi meccanismi potrebbe inoltre rendere le cellule cancerose sensibili alle terapie già esistenti, risolvendo il grave problema della resistenza alle cure».
Sei mai stata all’estero a fare un’esperienza di ricerca?
«Durante il dottorato ho trascorso poco più di un anno nel laboratorio di Immunologia del professor Antonius Rolink, presso l’Università di Basilea in Svizzera».
Cosa ti ha lasciato questa esperienza? Ti è mancata l’Italia?
«Il periodo trascorso a Basilea mi ha fatto crescere moltissimo da un punto di vista professionale: mi ha resa più indipendente nel portare avanti un progetto di ricerca, e ha rafforzato la mia capacità di analizzare criticamente i risultati. Entrare in contatto con un ambiente e un modo di lavorare diverso, e interagire con numerosi altri ricercatori provenienti da tutto il mondo, mi ha permesso di avere un termine di paragone con cui valutare pregi e difetti dei laboratori italiani. E tuttavia devo dirlo, dell’Italia mi sono mancati il cibo e l’estate: a Basilea il periodo estivo equivale a un’unica settimana di caldo».
Perché hai scelto di intraprendere la strada della ricerca?
«Da piccola pensavo che studiando le malattie avrei potuto aiutare gli altri. E nonostante siano passati tanti anni da quando ho iniziato il mio percorso scientifico, mi diverte ancora analizzare e interpretare i risultati sperimentali per capire dove il progetto mi sta portando. Questo è senza dubbio un lavoro che si fa per passione».
E come ti vedi fra dieci anni?
«Mi piacerebbe potermi vedere come professoressa nel dipartimento dove lavoro».
Cosa ti piace di più della ricerca?
«Il raggiungimento di nuove conoscenze sui processi biologici alla base della nostra vita».
E cosa invece eviteresti volentieri?
«Il precariato e le condizioni di lavoro».
Cosa ne pensi dei complottisti e delle persone contrarie alla scienza per motivi “ideologici”?
«Penso che il modo migliore per contrastare questi movimenti sia parlare di quello che si fa davvero in laboratorio, spiegando in modo chiaro e semplice cosa significa fare ricerca e quali sono i percorsi necessari e obbligatori che portano allo sviluppo di terapie. Altrettanto importante sarebbe ricordare che le attività nei laboratori sottostanno a principi etici precisi, il che smentisce molte delle accuse rivolte agli scienziati».
Hai famiglia?
«Sì, un marito e una figlia».
Se un giorno tua figlia ti dicesse che vuole fare il ricercatore, cosa le diresti?
«Le consiglierei di pensarci bene».
Quando è stata l’ultima volta che ti sei commossa?
«Quando ho letto “Venuto al mondo” di Margaret Mazzantini».
La cosa di cui hai più paura?
«Non veder crescere mia figlia».
Se ti dico scienza e ricerca, cosa ti viene in mente?
«Fatica e sacrificio, ma anche passione e divertimento».