Uno studio tutto italiano, finanziato da Fondazione Veronesi, apre interessanti prospettive per la malattia. L'intervista a Claudia Verderio
La malattia di Alzheimer è la causa più comune di demenza e si caratterizza per un processo degenerativo che colpisce in modo progressivo le strutture cerebrali. Le attuali stime indicano che le persone affette da questa malattia siano oltre 35 milioni nel mondo e 700 mila in Italia. Questi numeri sono però destinati ad aumentare drammaticamente nei prossimi anni a causa del rapido invecchiamento della popolazione. Si stima perciò che nel 2050 i pazienti affetti da malattia di Alzheimer nel mondo diventeranno più di 100 milioni. La malattia inizialmente colpisce l'ippocampo, sede della memoria a breve termine, per poi diffondere al resto del cervello. Come avvenga questa progressione non è del tutto noto. In una recente pubblicazione alcuni ricercatori italiani - tra i quali la dottoressa Claudia Verderio del CNR, finanziata da Fondazione Umberto Veronesi - hanno scoperto che tale diffusione potrebbe avvenire attraverso le fibre nervose che connettono le aree inizialmente colpite alle altre regioni cerebrali. Una scoperta in grado di aprire nuovi scenari sia dal punto di vista diagnostico sia da quello terapeutico.
Dottoressa Verderio, in cosa consiste lo studio che avete condotto?
Nella ricerca da poco pubblicata su Annals of Neurology abbiamo individuato un nuovo possibile biomarcatore che ci permette di seguire lo sviluppo della malattia. Lo studio ha coinvolto 106 pazienti affetti da malattia di Alzhemeir in stadio già avanzato e 51 pazienti che presentavano i primi sintomi della malattia (Mild Cognitive Impairment). Nel liquido cerebrospinale di questi pazienti è stato riscontrato un alto livello di microvescicole prodotte dalle cellule microgliali, le cellule immunocompetenti del cervello. Un dato importante è che l’aumentata produzione di microvescicole è stata evidenziata non solo nei pazienti affetti da demenza conclamata, ma anche in quei soggetti con Mild Cognitive Impairment.
Cosa sono queste microvescicole?
Tecnicamente si tratta di accumuli di molecole di vario genere, rivestite da una membrana, che vengono secrete al di fuori della cellula. In uno studio precedente su modelli animali abbiamo osservato che nella malattia di Alzheimer le cellule che sorvegliano il funzionamento del cervello, la microglia, rilasciano microvescicole neurotossiche che danneggiano il tessuto cerebrale. In particolare generano infiammazione.
Perché sfruttarle come biomarker?
Nello studio appena realizzato abbiamo aggiunto un importante tassello nella diagnosi della malattia. Ad oggi sono diversi i biomarcatori ad essa associati. Le microvescicole andranno ad aggiungersi a questi. I’ incremento di microvescicole microgliali è presente nei malati rispetto ai controlli sani, e anche nei soggetti con Mild Cognitive Impairment che nei tre anni successivi sviluppavano la malattia. Ciò significa che il monitoraggio di questo biomarker potrebbe essere utile sia nella diagnosi precoce di Alzheimer sia come fattore prognostico della malattia, cioè utile a predirne il decorso.
I risultati potrebbero essere sfruttati da un punto di vista terapeutico?
E' possibile. Al momento cure per l'Alzheimer non ce ne sono. La ricerca è impegnata nel capire i meccanismi alla base della malattia. Nello studio che abbiamo condotto c'è un'importante novità. La malattia inizia a livello dell'ippocampo e poi diffonde in tutto il cervello. Non siamo ancora in grado di seguire il movimento delle microvescicole in vivo, ma sappiamo che sono strutture piccole che possono muoversi nel cervello e potrebbero quindi rappresentare il meccanismo di diffusione della malattia. Diffusione che potrebbe avvenire tramite movimento delle microvescicole lungo i fasci di sostanza bianca, le prime strutture che vengono danneggiate in soggetti con Mild Cognitive Impairment caratterizzati da elevata produzione di microvescicole. Un meccanismo che potrebbe essere sfruttato come target terapeutico. Inibire la propagazione delle vescicole potrebbe essere una strategia per limitare i danni a livello cerebrale.
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Daniele Banfi
Giornalista professionista del Magazine di Fondazione Umberto Veronesi dal 2011. Laureato in Biologia presso l'Università Bicocca di Milano - con specializzazione in Genetica conseguita presso l'Università Diderot di Parigi - ha un master in Comunicazione della Scienza ottenuto presso l'Università La Sapienza di Roma. In questi anni ha seguito i principali congressi mondiali di medicina (ASCO, ESMO, EASL, AASLD, CROI, ESC, ADA, EASD, EHA). Tra le tante tematiche approfondite ha raccontato l’avvento dell’immunoterapia quale nuova modalità per la cura del cancro, la nascita dei nuovi antivirali contro il virus dell’epatite C, la rivoluzione dei trattamenti per l’ictus tramite la chirurgia endovascolare e la nascita delle nuove terapie a lunga durata d’azione per HIV. Dal 2020 ha inoltre contribuito al racconto della pandemia Covid-19 approfondendo in particolare l'iter che ha portato allo sviluppo dei vaccini a mRNA. Collabora con diverse testate nazionali.