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Caterina Fazion
pubblicato il 02-10-2024

Ecco com'è vivere con l'HIV nell'Italia del 2024


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La diagnosi precoce e le terapie sempre più efficaci permettono di avere una vita normale, ma lo stigma persiste. Due testimoni ci raccontano come si vive oggi con l'HIV

Ecco com'è vivere con l'HIV nell'Italia del 2024

Grazie ai progressi della medicina, convivere con l'HIV oggi è molto diverso rispetto al passato. I farmaci permettono di vivere una vita sostanzialmente normale, mantenendo il virus sotto controllo e impedendone la trasmissione. I farmaci antiretrovirali moderni sono sempre più efficaci e ben tollerati, con effetti collaterali minimi o del tutto assenti per la maggior parte delle persone.

Purtroppo, nonostante i grandi progressi medici, a persistere è lo stigma associato all'HIV. Molte persone devono affrontare pregiudizi e discriminazione, che possono manifestarsi sul posto di lavoro, nelle relazioni personali e persino nel sistema sanitario. Questo stigma è spesso alimentato da disinformazione e vecchi stereotipi, come la percezione errata che l'HIV colpisca solo determinati gruppi di persone o che sia ancora una malattia "mortale" e facilmente trasmissibile. Scopriamo grazie alle parole di due testimoni cosa significhi convivere oggi con l’HIV.

 

L’EPIDEMIA DI AIDS

«Quando ho scoperto di avere il virus HIV avevo 19 anni», ricorda Annamaria, che convive con il virus da ormai quarant’anni. «All’inizio ero tranquilla, stavo bene. Inoltre, per capire cosa significasse davvero avere l’Hiv avrei dovuto comprare giornali stranieri perché il virus era stato scoperto pochissimi anni prima, nel 1982. Mi sono resa conto della serietà della situazione quando una dottoressa, durante gli esami di controllo, mi ha detto che non avrei potuto avere figli, perché il rischio di contagiarli sarebbe stato molto alto. Alla fine degli anni ‘80, la progressione da Hiv ad Aids era molto frequente, e le persone iniziavano a morire. Ho dovuto salutare molti amici e conoscenti, compreso il mio compagno di allora. Il test per la diagnosi di Hiv, all’epoca per nulla diffuso, l’ho fatto proprio perché lui era risultato positivo, e così anche io. All’inizio ho tergiversato qualche mese prima di iniziare le terapie, ma poi mi sono convinta.Oggi ringrazio di averlo scoperto presto e di aver iniziato ad assumere farmaci quasi subito».

 

COME SONO CAMBIATE LE TERAPIE?

«I farmaci di allora non hanno nulla a che vedere con quelli attuali», spiega Annamaria. «Gli effetti collaterali erano numerosi e, in molti casi, invalidanti. Il più tipico e riconoscibile era la lipodistrofia, una condizione caratterizzata da una marcata ridistribuzione del grasso corporeo, con accumulo di adipe su pancia e collo e un significativo dimagrimento delle gambe e del viso. Inoltre, il numero di pillole da assumere era elevatissimo: io arrivavo a prendere fino a 20 pastiglie al giorno. Non si trattava solo di compresse per controllare il virus, ma anche di una serie di farmaci per prevenire infezioni opportunistiche, come polmoniti e infezioni funginee, molto comuni tra le persone con sistema immunitario molto compromesso. Oggi le terapie non sono solo più efficaci rispetto al passato, ma sono anche notevolmente semplificate: ora basta una sola pillola al giorno che combina più principi attivi. Inoltre, sono disponibili nuove opzioni di trattamento, come le iniezioni intramuscolari a lunga durata d'azione, somministrabili ogni due mesi, particolarmente apprezzate da chi desidera non assumere quotidianamente pillole».

«Nel 1996 c'è stata una vera e propria rivoluzione farmacologica», prosegue Annamaria, «con l'introduzione degli inibitori della proteasi. Ogni volta che prendevo le pastiglie, le baciavo prima di assumerle, consapevole che quella terapia ci stava permettendo di non morire, nonostante gli effetti collaterali fossero significativi, come vomito, iperlipidemia, diabete e calcoli renali. Dal 2005 in poi, abbiamo avuto accesso a farmaci e combinazioni sempre più efficaci, capaci di azzerare la carica virale e, in molti casi, con effetti collaterali minimi o inesistenti».

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TESTIAMOCI DI PIÙ

Per poter iniziare il prima possibile terapie efficaci, è fondamentale che i test per la diagnosi di HIV vengano effettuati regolarmente da tutti coloro che hanno una vita sessuale attiva e che si trovano a rischio a causa di comportamenti come il mancato utilizzo del preservativo. È il caso di Aldo (nome di fantasia), abituato a sottoporsi a controlli per le malattie sessualmente trasmissibili una o due volte all’anno. All'età di trent'anni, dopo anni di esami andati a buon fine, ha ricevuto una diagnosi inaspettata: è risultato positivo al virus HIV.

«Il momento della diagnosi è stato traumatico – racconta Aldo –, ma sono grato di aver fatto il test, che mi ha permesso di acquisire consapevolezza sulla mia situazione. Penso sia fondamentale normalizzare la cura della propria salute sessuale, esattamente come si fa per la salute del cuore o dei denti. Testarsi con regolarità non deve spaventare; al contrario, rappresenta una grande opportunità per conoscere il proprio stato di salute e intervenire tempestivamente».

 

LO STIGMA PERSISTE

Le persone con HIV che raggiungono una carica virale non rilevabile grazie alla terapia antiretrovirale non possono trasmettere il virus ad altre persone tramite rapporti sessuali. In altre parole, una carica virale "non rilevabile" rende il virus "non trasmissibile" (U=U: Undetectable = Untransmittable). Nonostante questo concetto sia supportato da una solida base di evidenze scientifiche, persiste un forte timore tra le persone, che faticano a fidarsi.

«Lo stigma verso le persone con HIV è ancora molto presente», riflette Annamaria. «Certo, non siamo ai livelli delle campagne mediatiche degli anni '90, quando le persone con HIV erano rappresentate circondate da un alone viola e lo slogan “AIDS, se lo conosci lo eviti” mi colpiva come un pugno nello stomaco. Tuttavia, anche oggi, dai familiari ai partner, passando per conoscenti e professionisti, la paura nei confronti del virus è diffusa. È purtroppo comune che estetisti o dentisti si rifiutino di accettare come clienti o pazienti le persone con HIV, temendo di contrarre il virus. Incredibilmente, ho subito le discriminazioni maggiori proprio in occasione di accertamenti sanitari, da parte di medici e infermieri intimoriti dalla mia condizione, nonostante la mia carica virale sia azzerata. Le persone non si preoccupano di avere rapporti non protetti con chi potrebbe essere positivo senza saperlo, ma temono il contatto con chi è consapevole di avere il virus e si sta curando. È un paradosso».

«Purtroppo, attorno a questo tema c'è tantissima ignoranza – aggiunge Aldo –e, di conseguenza, tanto stigma. Anche nell'ambiente sanitario, dove non tutti i reparti possiedono le conoscenze necessarie. Le persone che hanno vissuto l'epidemia di HIV negli anni '80 e '90 tendono a collegare il virus alla morte. Chi lo ha conosciuto in quel modo fa fatica a superare questa associazione e a comprendere l'evoluzione delle terapie. Tuttavia, a livello comunicativo, abbiamo fatto notevoli progressi in Italia, anche grazie alla LILA (Lega Italiana per la Lotta contro l’AIDS), che si batte attivamente per una comunicazione più consapevole e meno stigmatizzante riguardo all'HIV».

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DIRLO O NON DIRLO?

Fino a qualche anno fa, si parlava molto di categorie di persone a rischio, come omosessuali, prostitute e tossicodipendenti. Oggi, per fortuna, l'attenzione si è spostata verso i comportamenti a rischio, che possono riguardare potenzialmente chiunque, come il sesso non protetto o lo scambio di siringhe.

«Quando si decide di rivelare di avere l'HIV a qualcuno, è fondamentale che quella persona si fidi di ciò che stai dicendo: “sto bene e la mia carica virale è azzerata”», racconta Annamaria. «Tuttavia, non è scontato che questo accada, e comunque non è sempre facile rivelare la propria condizione. Affinché ciò avvenga, devono esserci il contesto, l'occasione e la fiducia. La mia famiglia mi è stata molto vicina, ma ho scelto di non dirlo a tutti i miei conoscenti, nemmeno a coloro che mi stanno più vicino. Dove percepisco ignoranza, non posso sperare nella comprensione. Purtroppo è un circolo vizioso, perché se le persone che vivono con il virus, me compresa, parlassero più apertamente senza temere lo stigma, la gente capirebbe che si tratta di persone normali, con una vita normale. Potrebbero essere il nostro medico, il fruttivendolo, l'insegnante di nostro figlio o l'istruttore in palestra. Di conseguenza, ne avrebbero meno paura e magari si testerebbero di più, senza temere l'esito. Questo non avviene perché la conoscenza è ancora troppo scarsa e prevalgono timore e ignoranza. Se ci fossero più esempi positivi pronti a esporsi e a dichiarare di convivere con il virus, la situazione potrebbe normalizzarsi in modo più naturale e veloce».

Anche Aldo, lavorando in un ambiente dove regna il pregiudizio, non si è sentito di parlare apertamente della sua condizione. Ha scelto di aprirsi solo con poche persone, che considera informate e non giudicanti.

 

COME RIDURRE LO STIGMA?

Per ridurre lo stigma e migliorare la prevenzione, gli strumenti più importanti sono l'informazione e la sensibilizzazione, che andrebbero utilizzati in modo più efficace e strategico.

«Informare di più nelle scuole e attraverso campagne di sensibilizzazione è la chiave di tutto», riflette Annamaria. «Anche il cinema e i film in generale rappresentano una risorsa potente, ma poco sfruttata. Siamo ancora fermi a Philadelphia, dove l'AIDS era sinonimo di morte. Se venissero rappresentate situazioni diverse, comuni e quotidiane, in cui le persone con HIV vivono normalmente, lavorano come tutti noi e hanno figli, sarebbe un grande regalo per tutti. Anche strumenti di prevenzione e protezione, come la profilassi pre-esposizione (PrEP) o post-esposizione (PEP), andrebbero spiegati e promossi di più, senza stigmatizzarli. Se non si conosce la loro esistenza, è come non averli affatto».

«Inoltre – aggiunge Aldo – formare i medici di base, che conoscono i pazienti, le loro storie e le loro abitudini, consentirebbe a chi è a rischio di contrarre il virus di testarsi con frequenza, almeno una volta all’anno».

 

COME AFFRONTARE LA DIAGNOSI?

Affrontare una diagnosi di HIV può essere complesso e provante, sia per i diretti interessati sia per le persone a loro vicine. Abbiamo chiesto ai nostri testimoni di offrire alcuni consigli su come affrontare questa situazione.

«Ogni caso è unico, ma posso dire che personalmente sto vivendo una vita normalissima», racconta Aldo. «Se non fosse per i farmaci che mi ricordano quotidianamente della mia condizione, me ne dimenticherei, e a volte succede. Dopo la diagnosi, mi sono sposato e ho avuto una vita relazionale assolutamente comune».

«Io ho vissuto più anni con il virus che senza – racconta Annamaria –, e ho accettato questa convivenza molto presto. Mi sono sempre informata a fondo per essere completamente consapevole della mia situazione. Non ho mai avuto il rifiuto, mentre spesso, dalle telefonate che riceviamo alla LILA, dove faccio volontariato da anni, ascolto molte persone che faticano ad accettare una parte di sé. Questo può ripercuotersi sulla vita familiare e relazionale perché non riescono a parlarne con il proprio partner, magari anche dopo essere rimaste incinte. A tutti coloro che scoprono di avere il virus, vorrei dire che non si può ignorare una parte di sé. Oggi, conoscere precocemente la diagnosi è importante perché permette di agire tempestivamente, azzerare la carica virale e vivere una vita con qualità e durata comparabile a quella di una persona senza HIV. Purtroppo, molte persone scoprono di avere il virus solo quando la malattia è già progredita in AIDS. In tal questi caso, nella maggioranza delle situazione è comunque possibile risolvere eventuali complicazioni e recuperare il controllo dell’infezione. Se hai ricevuto una diagnosi, considerala un’occasione per curarti e per contribuire a fermare la diffusione del virus. Ricordiamo infatti che la maggior parte delle trasmissioni avviene perché chi ha il virus non lo sa ancora».

Caterina Fazion
Caterina Fazion

Giornalista pubblicista, laureata in Biologia con specializzazione in Nutrizione Umana. Ha frequentato il Master in Comunicazione della Scienza alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste e il Master in Giornalismo al Corriere della Sera. Scrive di medicina e salute, specialmente in ambito materno-infantile


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