La sostituzione percutanea della valvola aortica efficace nei pazienti a basso rischio. Ma non è ancora il momento di spedire il bisturi in soffitta
A un certo punto della vita, la valvola si irrigidisce e ostacola l'afflusso del sangue dal cuore al resto del corpo. La stenosi aortica è una condizione piuttosto diffusa, a partire dai 65 anni. In Italia ne soffre all'incirca un milione di persone e, non esistendo farmaci in grado di curare questa malattia, prima o poi la quasi totalità di loro dovrà ricorrere all'intervento chirurgico per riparare o sostituire la porta «occlusa». Il dilemma riguarda la soluzione da adottare. Se in passato la sostituzione della valvola avveniva sempre «a cuore aperto», oggigiorno è crescente il ricorso alla «Tavi»: una soluzione meno invasiva nata per trattare i pazienti inoperabili, ma che nel tempo viene presa sempre più spesso in considerazione come il rimedio da adottare per risolvere una stenosi aortica.
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STENOSI AORTICA: DI COSA SI TRATTA?
La stenosi aortica è una cardiopatia che può essere anche di origine congenita. Ma la quasi totalità dei casi altro sono la conseguenza - dovuta al trascorrere degli anni - dell'irrigidimento del tessuto connettivo che compone la valvola. Quella coinvolta, in questo caso, regola la fuoriuscita del sangue ossigenato dal ventricolo sinistro verso l'aorta. E, dall'arteria più grande del corpo umano, verso i distretti periferici. Quando questo processo non avviene più in maniera regolare, il gradiente di pressione in uscita dal cuore provoca una «turbolenza». Più la stenosi è severa, maggiori sono i rischi per il muscolo cardiaco. Il paziente comincia ad avvertire il cosiddetto soffio, che assieme al dolore toracico (soprattutto sotto sforzo), alle difficoltà respiratorie e agli svenimenti rappresenta uno dei sintomi chiave della stenosi aortica. Per la conferma della diagnosi, sono sufficienti un ecocardiogramma, un elettrocardiogramma e una radografia del torace.
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LA CHIRURGIA DELLA STENOSI AORTICA
Una volta riscontrata la stenosi, si interviene sulla valvola. In origine, l'unica possibilità era data dalla sua sostituzione, attraverso una o più incisioni sul torace: con il paziente addormentato e a cuore fermo. Una soluzione radicale, ma non sempre attuabile. Nelle persone più attempate o in cui la situazione è più grave, infatti, il rischio operatorio porta a escludere l'intervento. Così, per far fronte a questa evenienza, nel 2002 il cardiologo francese Alain Cribier ideò la sostituzione della valvola aortica per via percutanea. In questo caso il nuovo dispositivo viene inserito attraverso l’apice del cuore o tramite l’arteria femorale e poi condotto alla base del ventricolo sinistro, dove si salda sfruttando le calcificazioni della valvola nativa, che non viene asportata. Questa tecnica, in 17 anni, ha reso possibile il trattamento della stenosi aortica per oltre 120mila persone (30mila in Italia) che non sarebbero risultate idonee a sottoporsi all'intervento tradizionale. Si è partiti dai pazienti più a rischio, ma la soglia per intervenire si sta progressivamente abbassando.
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PAZIENTI SEMPRE PIU' GIOVANI
La sostituzione della valvola aortica per via percutanea è un intervento sempre più diffuso, anche in conseguenza dell’invecchiamento della popolazione. In Italia, secondo le statistiche fornite dalla Società Italiana di Cardiologia Interventistica, si è passati dalle 2.586 «Tavi» effettuate nel 2014 alle 6.888 del 2018 (i dati del 2019 sono già più alti). Un vero boom, che gli esperti motivano con l'opportunità di curare la stenosi aortica in modo sicuro e con un impatto minore per il paziente (che viene operato a cuore battente). Tutto ciò ricorrendo a un intervento di durata inferiore (non più di un'ora), al pari della degenza (4-5 giorni, tra terapia intensiva e reparto). Aspetti ai quali si sono aggiunte le evidenze di diversi studi, gli ultimi dei quali pubblicati sul New England Journal of Medicine. Il confronto effettuato dopo due anni tra pazienti a basso rischio (età media: 74 anni) operati «a cuore aperto» e con la «Tavi» non ha fatto emergere differenze: in termini di numero di decessi e di casi di ictus, una delle complicanze più pericolose dell'intervento mininvasivo. Mentre nell'analisi effettuata a un mese dall'intervento, la «Tavi» ha mostrato risultati migliori rispetto a quelli della sostituzione chirurgica della valvola aortica. Evidenze che Ciro Indolfi, direttore dell’unità operativa complessa di cardiologia del policlinico di Catanzaro e presidente della Società Italiana di Cardiologia, definisce «eccezionali: siamo di fronte alla più grande innovazione tecnologica della cardiologia, dopo l'introduzione degli stent coronarici».
COSTI E DATI A LUNGO TERMINE
Come ogni volta in cui fa capolino una novità in medicina, ci sono però due aspetti da considerare: la mancanza di dati a lungo termine e i costi da sostenere. Nel primo caso, quello che si sa è che per i pazienti più giovani è meglio optare per una valvola meccanica. Quelle biologiche, di origine bovina, hanno sì diversi vantaggi sul piano clinico (adatte ai pazienti ad alto rischio, richiedono dosi inferiori di anticoagulanti e si ancorano senza punti ai tessuti circostanti), ma devono essere sostituite dopo 15-20 anni. Vengono perciò consigliate ai pazienti più anziani, visto che un eventuale secondo intervento presenterebbe rischi più elevati. La questione del tempo è cruciale pure nel confronto con la chirurgia «open»: più invasiva, ma sicuramente duratura. I cardiologi interventisti, autori delle sostituzioni valvolari per via percutanea, sono convinti che, alla lunga, la spunterà la «Tavi». Più prudenti sono invece i cardiochirurghi, chiamati a effettuare l'intervento con l'incisione toracica e non ancora certi che una minore invasività assicuri sempre risultati ottimali. La disputa è anche economica. La cura della stenosi aortica con «Tavi» costa di più. Ma se venisse confermata la riduzione dell'impatto per i pazienti, compresi i più giovani, più che di una spesa sarebbe corretto parlare di un investimento.
Fabio Di Todaro
Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).