L’impianto della valvola senza aprire il torace (Tavi) determina minori tassi di morte anche nelle persone finora candidabili all’intervento a cuore fermo
I tempi per la sostituzione delle valvole cardiache si sono drasticamente ridotti a poco più di un'ora, grazie alla crescente diffusione delle procedure di cardiologia interventistica. Accade con gli interventi a carico della valvola mitrale, ma pure con la sostituzione di quella aortica, necessaria nei pazienti colpiti da una stenosi che rallenta il flusso sanguigno tra il ventricolo sinistro e l’arteria aorta: da cui, poi, la diffusione del sangue a tutto il corpo. L’opzione mininvasiva, finora considerata soltanto nei pazienti ad alto rischio, viene ora ritenuta un'opzione sicura anche in quelli che finora risultavano candidabili all’intervento tradizionale a cuore fermo e aperto. Ovvero tutti coloro i quali godevano, per il resto, di un buono stato di salute, necessario a garantire un ingresos sicuro in sala operatoria.
La chirurgia mininvasiva che ripara la valvola mitrale
IMPIANTO TRANSCUTANEO ANCHE PER I PAZIENTI A MEDIO RISCHIO
La notizia giunge dallo studio multicentrico Surtavi, pubblicato sul New England Journal of Medicine e discusso nel corso del congresso europeo di cardiologia interventistica conclusosi a Parigi. La ricerca, condotta su 1.746 pazienti a medio rischio con una grave stenosi aortica sintomatica, ha evidenziato la maggiore sicurezza della procedura mininvasiva (rispetto a quella chirurgica tradizionale) anche nei confronti dei pazienti a medio rischio. Il confronto è avvenuto valutando due «end-point»: i tassi di mortalità entro due anni (per qualsiasi causa) e la comparsa di un ictus cerebrale. I dati raccolti sono risultati più bassi per la cosiddetta TAVI: l’impianto valvolare aortico transcatetere, il primo dei quali effettuato in Italia risale a dieci anni fa (ventimila gli interventi andati a buon fine fino a oggi). Nel corso dei primi trenta giorni successivi all’intervento, nel gruppo dei pazienti trattati con l’inserimento della nuova valvola attraverso l’arteria femorale, poi condotta in situ dove l’ancoraggio avviene sfruttando le calcificazioni della valvola nativa (che non viene rimossa), anche i tassi di insorgenza di fibrillazione atriale sono risultati più bassi. Vantaggi a cui sono da aggiungere quelli già noti, che accompagnano la procedura mininvasiva. «Si riducono i sanguinamenti, il rischio di infezioni è più basso e il paziente può tornare a casa entro una settimana», afferma Giuseppe Musumeci, direttore dell’unità di cardiologia dell’ospedale Santa Croce e Carle di Cuneo e presidente della Società Italiana di Cardiologia Interventistica (Gise).
QUANDO SI PUO' PARLARE DI IPERTENSIONE?
MA CHI SONO I PAZIENTI A MEDIO RISCHIO?
I due trattamenti - quello cardiochirurgico vecchio stampo e quello mininvasivo, sostenuto nei pazienti ad alto rischio a partire dal 2010: ovvero dalla pubblicazione dei primi dati sul New England Journal of Medicine - sono stati confrontati in due gruppi di pazienti finora trattati seguendo l’approccio tradizionale. Nei pazienti a medio rischio chirurgico, infatti, l’ipotesi dell’impianto valvolare transcatetere non era stata presa prima in considerazione, poiché si riteneva che potessero affrontare ragionevolmente un intervento a cuore aperto. In questo caso sì: alcuni sono stati operati a cuore fermo (794), mentre in altri (863) la sostituzione della valvola è avvenuta per via transcutanea. Ma chi sono i pazienti che appartengono al gruppo interessato dalla sperimentazione? «Si tratta di tutti coloro i quali si candidano a entrare in sala operatoria con un rischio di mortalità pari almeno al cinque per cento - dichiara Giuseppe Tarantini, responsabile dell’unità di cardiologia interventistica dell’azienda ospedaliero-universitaria di Padova -. Questo può derivare dalla contemporanea presenza di altre condizioni: quali l’ipertensione, il diabete di tipo 2, la fibrillazione atriale o una insufficienza renale. Il lavoro dimostra come la platea dei potenziali candidati a un impianto transcatetere della valvola aortica potrà in un futuro prossimo essere allargata».
Quando preoccuparsi per l’extrasistole?
VALVOLE NUOVE: MECCANICHE O BIOLOGICHE?
Nessun farmaco s’è finora rivelato in grado di impedire la progressione della stenosi aortica, malattia piuttosto comune nella popolazione anziana (in Italia ne soffre il 4,6 per cento degli over 75, più dell’otto per cento degli over 85) che l’anno scorso ha costretto anche l’ex premier Silvio Berlusconi a entrare in sala operatoria. Motivo per cui, quando l’apertura della valvola è parziale e la frazione di eiezione (il volume di sangue pompato nell’aorta a ogni battito cardiaco) del cuore risulta di conseguenza ridotta, il rimpiazzo rappresenta il trattamento di elezione. Mettendo per un attimo da parte l’opzione a cuore aperto, ancora la prima scelta per i pazienti a basso rischio operatorio (è così che fu operato Berlusconi), esistono due tipi di valvole da impiantare: meccaniche o biologiche. Le prime, dalla vita media più lunga, vengono inserite nei ventricoli dei pazienti più giovani. Quelle organiche, tratte dal pericardio dei bovini, vanno invece sostituite ogni vent’anni: un tempo di turnover che ne agevola l’impiego nei soggetti più anziani. In questo caso «il vantaggio è dato dall’utilizzo ridotto o talvolta assente degli anticoagulanti, dalla ridotta incidenza di endocarditi e dall’opportunità di inserire un dispositivo in grado di ancorarsi da solo al tessuto circostante, senza dover ricorrere ai punti - prosegue Tarantini -. I dispositivi biocompatibili oggi sono molto utilizzati perché più adatti per i pazienti ad alto rischio chirurgico».
Per quali condizioni è indicato il trapianto di cuore?
CARDIOCHIRURGIA GOLD STANDARD: MA ANCORA PER QUANTO?
Lo studio in questione è dunque il primo a evidenziare anche nei pazienti a rischio intermedio un minor rischio operatorio legato alla procedura transcatetere rispetto al tradizionale approccio cardiochirurgico: ancora il cosiddetto gold-standard per il trattamento di una condizione che, se trascurata, rimane molto pericolosa. Facile dunque immaginare, a seguito di questi risultati, un’espansione dell’approccio mininvasivo rispetto a quello a cuore aperto. Secondo Michael Reardon, cardiochirurgo all’Università di Houston e prima firma della pubblicazione, «risultati eccellenti sono stati in realtà riscontrati in entrambi i bracci dello studio». Ma nelle conclusioni del lavoro si legge che «in un futuro prossimo la Tavi potrebbe diventare il trattamento da prediligere nei pazienti con una stenosi aortica».
Fabio Di Todaro
Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).