Efficaci per abbassare il colesterolo, prevenirebbero l'insorgenza del disturbo alla base del carcinoma dell'esofago
Efficaci in cardiologia, con riscontri poco convincenti ottenuti nella cura di alcune neoplasie e dei sintomi della depressione, delle statine - utilizzate per tenere a freno i livelli di colesterolo nel sangue - si torna oggi a parlare come possibile antidoto all’esofago di Barrett, una condizione ritenuta predisponente all’adenocarcinoma dell’esofago, se non trattata.
STATINE ED ESOFAGO DI BARRETT
L’ipotesi viene lanciata da uno studio appena pubblicato dalla rivista Gastroenterology che ha analizzato i consumi precedenti del farmaco in tre categorie di pazienti: 303 in cui era già stata effettuata la diagnosi di esofago di Barrett, 606 candidati a un controllo endoscopico di routine e 303 controlli “puri”. Dall’analisi retrospettiva è emerso che il 57,9% dei pazienti ammalati assumeva regolarmente le statine (quasi tutti facevano uso della simvastatina), mentre le percentuali in media erano sensibilmente più alte all’interno degli altri due gruppi osservati. Un’associazione che ha portato Hashem El Serag, direttore del dipartimento di gastroenterologia ed epatologia al Baylor College di Houston, a concludere che «i pazienti che assumevano regolarmente le statine hanno un rischio sensibilmente più basso di non sviluppare l’esofago di Barrett».
L’effetto protettivo - legato al consumo di statine e non ad altre condizioni ritenute fattori di rischio: come l’utilizzo di alcuni farmaci, un’infezione da helicobacter pylori in corso, il consumo di sostanze alcoliche, il fumo - è risultato più marcato nei soggetti obesi, nei pazienti che soffrivano di reflusso gastroesofageo e in generale, in tutti coloro che avevano assunto le statine per almeno tre anni. «La ricerca è interessante in quanto suggerisce che il metabolismo del colesterolo potrebbe essere un fattore di rischio per lo sviluppo di questa lesione precancerosa - afferma Stefano Realdon, gastroenterologo dell’unità operativa di endoscopia diagnostica e operativa dell’Istituto oncologico veneto di Padova -. Ma prima di considerare l’intervento farmacologico, è fondamentale correggere lo stile di vita e l’alimentazione del paziente. Così è possibile ridurre alcune condizioni che costituiscono noti fattori di rischio, come l’obesità addominale e la resistenza all’insulina».
CHIRURGIA: QUALI PROGRESSI?
L’esofago di Barrett preoccupa soprattutto per le conseguenze che può assumere, se non trattato. La condizione, infatti, è considerata un terreno fertile per lo sviluppo dell’adenocarcinoma esofageo, i cui numeri sono recentemente cresciuti in diverse popolazioni occidentali: un riscontro che ha portato la comunità scientifica a spostare le attenzioni sulla dieta e sull’eccessiva sedentarietà. Quanto all’approccio terapeutico, quello chirurgico rappresenta la prima scelta, quando la neoplasia non ha già innescato il processo metastatico.
Negli ultimi dieci anni, anche in Italia, s’è diffuso la pratica chirurgica mininvasiva che, come spiega Christophe Marriette, responsabile del dipartimento di chirurgia oncologica del tratto digerente all’università di Lille, «s’è rivelata sicura ed efficace, con risultati simili a quelli ottenuti con le tecniche tradizionali. Tra i vantaggi si riscontra una ridotta perdita di sangue e un ricovero ospedaliero più breve». L’intervento, in anestesia generale, si effettua in parte per via laparoscopica e in parte attraverso una piccola incisione sul lato sinistro del collo. Un aiuto non indifferente per chi finisce sotto i ferri.
Fabio Di Todaro
Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).