Uno studio esamina il pianto di 8.700 neonati di varie nazionalità. La regola del 3 per riconoscere le coliche gassose. I bambini italiani terzi nella classifica dei «piagnoni»
I nostri bambini sono ai vertici della speciale classifica: piangono più dei coetanei spagnoli, asiatici e africani, meno soltanto dei canadesi e degli inglesi. Ma ciò che conta, in questo caso, non è la portata del pianto, bensì la sua durata e l’arco temporale durante il quale si manifesta. È normale, per esempio, che un neonato pianga se soffre di coliche gassose: eventi provocati dalla distensione della parete intestinale che accompagna il passaggio di bolle d’aria. Ma esiste un limite oltre il quale questa situazione non dovrebbe andare, che in linea generale s’attesta attorno alle dodici settimane di vita.
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NEONATI CHE PIANGONO: IL FATTORE NAZIONALITA’
A far nuovamente parlare del pianto dei neonati è stato un gruppo di ricercatori dell’Università di Warwick (Regno Unito), con un lavoro pubblicato sulla rivista Journal of Pediatrics. Gli esperti hanno condotto una metanalisi raccogliendo oltre 35 studi scientifici, per un totale di 8.700 bambini coinvolti. Eterogenea la loro origine: italiani, inglese, canadesi, giapponesi, olandesi, danesi, tedeschi, australiani e statunitensi. In media, il neonato piange circa due ore al giorno nel corso delle prime due settimane di vita, prima di raggiungere il picco a due ore e dieci minuti attorno alle sei settimane. Il dato medio racchiude chiaramente un ampio spettro di possibilità: da un minimo di mezzora a oltre cinque ore al giorno di strilli. Osservando questi dati, i ricercatori hanno riscontrato alcune peculiarità territoriali: come la durata del pianto e l’associazione con un determinato arco temporale. In Italia, per esempio, i picchi si registrano in media tra l’ottava e la nona settimana, mentre nel Regno Unito i neonati risultano più frignoni nei primi quattordici giorni di vita. Incrociando i risultati, s’è visto che nelle prime sei settimane di vita i bambini piangono tra i 117 e i 133 minuti al giorno, mentre tra il secondo e il terzo mese di vita la media della durata complessiva del pianto precipita a 68 minuti.
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COSI' IL PIANTO AIUTA A RICONOSCERE LE COLICHE GASSOSE
Oltre a riportare una correlazione tra la durata del pianto e l’incidenza delle coliche, i dati, secondo gli autori dello studio, evidenziano «un possibile ruolo dei fattori culturali e genetici nella ricorrenza delle coliche», identificabili come tali, secondo i criteri di Wessel, con la «regola del 3»: ovvero quando un neonato piange più di tre ore al giorno, più di tre giorni alla settimana, per oltre tre settimane. Ma volendo andare oltre la statistica che porta a riconoscere i bambini italiani come piagnoni, in che modo questi dati possono tornare utili? «I colleghi hanno quantificato per la prima volta la durata di un pianto riconducibile alle coliche - afferma Gaetano Chirico, direttore dell’unità di neonatologia e terapia intensiva neotale degli Spedali Civili di Brescia e coordinatore del consiglio direttivo della Società Italiana di Neonatologia -. La frequenza delle coliche si riduce a partire dal secondo mese, per azzerarsi oltre il terzo. Oltre questo tempo, occorre considerare la possibile presenza di altre malattie». Un evento comunque raro, ma da non prendere sotto gamba. «Nel 95 per cento dei casi un neonato piange e si agita per le coliche. La restante quota, di gran lunga minoritaria, è da ricondurre a possibili casi di reflusso gastroesofageo o allergia alle proteine del latte».
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COLICHE E SINDROME DEL BAMBINO SCOSSO
Per quanto fisiologico, il problema delle coliche non è da sottovalutare. Chirico cita due studi per far presente che i bambini che hanno sofferto di un maggior numero di coliche gassose nei primi mesi di vita sono più a rischio di sviluppare la cefalea già in età pediatrica. Ma soprattutto richiama l’attenzione su un aspetto: «La correlazione tra la durata e la frequenza delle coliche e la probabilità di scuotere violentemente il bambino, con il rischio di provocare la sindrome del bambino scosso». Una condizione che può provocare danni neurologici anche permanenti a seguito dell’agitazione del neonato, nel tentativo (in questo caso) di smorzare il pianto. Le conseguenze cliniche immediate sono vomito, inappetenza, difficoltà di suzione o deglutizione, irritabilità e, nei casi più gravi, convulsioni e alterazioni della coscienza, fino all'arresto cardiorespiratorio. A lungo termine i bambini possono presentare difficoltà di apprendimento, cecità, disturbi dell'udito o della parola, epilessia, disabilità fisica o cognitiva.
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Fonti
Fabio Di Todaro
Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).