L'80 per cento dei tumori del colon metastatici potrebbe diffondersi prima che il tumore risulti rilevabile. Ecco perché diventa necessario «scovare» la malattia anche nel sangue
«Nati per essere cattivi». In attesa di capire come riconoscerli e curarli, gli scienziati non hanno potuto definire altrimenti una particolare categoria di tumori del colon-retto: quelli in grado di diffondersi in tutto il corpo in men che non si dica. L’80 per cento delle forme metastatiche sarebbe infatti in grado di migrare verso altre sedi (fegato, polmoni, peritoneo, cervello) ancora prima della scoperta del tumore primario. E, dunque, dell’inizio del percorso di cura. Una situazione potenziale che complica le possibilità di curare quella che è la forma di cancro più frequente in Italia: seconda alle spalle di quelli al seno (tra le donne) e della prostata (uomini).
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DIAGNOSI: QUANDO È GIÀ TROPPO TARDI
La diagnosi precoce, quando si parla di cura dei tumori, è considerata un elemento in grado di fare la differenza. Ma in alcuni casi la velocità di diffusione della malattia è superiore alla possibilità di scovarla in tempo utile. Da tempo si sa che questo scenario riguarda, per esempio, il tumore del pancreas. Oggi si scopre che caratteristiche analoghe appartengono anche al tumore del colon, «ricercato» nella fascia di età in cui è più diffuso (50-69 anni) attraverso l’apposito screening. Il dato emerge da una ricerca pubblicata sulla rivista Nature Genetics, che ha svelato nel dettaglio la possibile aggressività precoce di queste neoplasie. Il lavoro dei ricercatori si è svolto in due fasi. Nella prima, è stato effettuato un confronto delle mutazioni genetiche presenti nei campioni istologici dei tumori primari e delle metastasi (epatiche o cerebrali) di 21 pazienti con un cancro del colon o del retto. Una volta identificati i «punti di contatto» iscritti nel Dna, gli autori hanno confrontato gli esiti degli esami provenienti da due campioni di pazienti: i primi (938) colpiti da un tumore metastatico, i secondi (1.813) da una malattia localizzata. Anche da questa comparazione è emerso che alcune mutazioni sono indicative della possibilità di generare metastasi.
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COSA SI SA OGGI?
La conoscenza del processo di formazione delle metastasi non è completa: né a livello biologico né per quel che concerne i tempi necessari alla diffusione della malattia. La corrente di pensiero prevalente porta a considerare il processo come qualcosa di graduale, dettato dall’accumulo di più mutazioni genetiche che portano le cellule a «sfuggire» all’organo di partenza, a entrare nel torrente circolatorio e a raggiungere altre sedi. Evidentemente, però, non sempre l’intervallo è così lungo. Nella maggior parte dei casi osservati, la capacità delle cellule di generare metastasi era stata sviluppata ben prima che il tumore primitivo fosse clinicamente rilevabile. I ricercatori non hanno ancora chiarito quali caratteristiche molecolari possano determinare un’evoluzione così aggressiva. Un’ipotesi, però, è stata formulata. Quella di una o più mutazioni (oltre a quelle note) a carico del gene PTPRT. La sua «disattivazione» lascia campo libero a una proteina (STAT3) che agevola la replicazione cellulare. E, dunque, la rapida diffusione della malattia. «Partendo da questa scoperta, lavoreremo per identificare quelle alterazioni e renderle identificabili nel sangue - afferma Chiara Cremolini, ricercatrice del dipartimento di oncologia dell’Università di Pisa e co-autrice dello studio -. Questo risultato potrebbe nel tempo portarci a formulare diagnosi più precise rispetto a quanto fatto finora». Esame endoscopico (colonscopia) e ricerca dei marcatori nel sangue: così potrebbe cambiare l’approccio al tumore del colon. Ed, eventualmente, anche quello alle terapie.
METASTASI: COME TRATTARLE
Sapere che l’80 per cento dei casi di cancro del colon metastatico ha le caratteristiche per diffondersi a distanza fin dalle primissime battute non equivale a dire che otto pazienti su dieci sono destinati a sviluppare metastasi (il fegato è l’organo più spesso colpito). Questa evoluzione si verifica all’incirca in cinque casi su dieci. Se non già alla diagnosi (25 per cento dei casi), nel corso degli anni (una quota analoga). Quali sono gli strumenti già disponibili per prevedere il decorso della malattia? Prosegue Cremolini: «Sono diversi i parametri che si osservano dopo l’intervento: il coinvolgimento dei linfonodi, il numero di quelli colpiti, la differenziazione delle cellule tumorali, la loro diffusione nel microcircolo sanguigno e la profondità della lesione». In alcuni di questi casi, dopo l’intervento chirurgico, si ricorre alla chemioterapia per eliminare eventuali micro-metastasi e impedirne la diffusione in altri organi. «Identificando subito i pazienti con i tumori più aggressivi, potremo calibrare meglio la terapia - conclude la specialista -. Questo ci permetterebbe di trattare chi ne ha bisogno, di escludere quelle persone che potrebbero non essere comunque mai destinate a rifare i conti con la malattia e di mettere a punto nuovi farmaci mirati».
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Fabio Di Todaro
Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).