Simona Righetti, quarant’anni, nel 2014 ha avuto un tumore al seno: «Gli oncologi devono sempre ricordare che ogni paziente ha scelto di mettere la propria vita nelle sue mani»
«L’atteggiamento paternalistico dell’oncologo nei confronti del paziente non va più bene. Il paziente merita di essere considerato nella sua individualità e lo specialista deve considerare il confronto con lui come un’opportunità di crescita». Simona Righetti (nella foto) ha quarant’anni ed è sulla tolda di comando di una casa editrice che pubblica riviste e libri di montagna. Nella seconda metà del 2014, cinque mesi dopo aver partorito, ha scoperto di avere un tumore al seno. «Un triplo negativo, uno dei più aggressivi e difficili da curare», ha spiegato a margine del primo forum internazionale sull’«empowerment» dei pazienti oncologici, organizzato in collaborazione tra l'Università Statale e la Fondazione Umberto Veronesi, con una cognizione di causa che descrive l’evoluzione critica del paziente. «Non sono l’unica donna a essere così informata. Ecco perché occorre rivedere il rapporto tra chi è ammalato e chi ha il compito di curarlo».
Qual è stata la sua esperienza di cura?
«Ho scelto un centro di eccellenza e tutto, finora, è andato per il meglio. Eppure ho riscontrato un approccio al paziente standardizzato, non cucito su misura delle sue esigenze. Le domande del paziente che vuole capire a fondo cosa ha sono percepite troppo spesso come un fastidio. Da anni sento parlare di medicina personalizzata, ma nella pratica è ancora poco diffusa. In più, attraverso i forum delle pazienti, mi rendo conto che la situazione non è omogenea in tutta Italia. Ci sono donne che, con la mia stessa malattia, non hanno ricevuto spiegazioni esaustive: sulla tipologia di tumore, sulle opportunità terapeutiche, sulle chance di guarigione. Gli specialisti dovrebbero imparare a parlare di più: con noi, ma anche tra di loro».
Cosa servirebbe per sviluppare l’«empowerment» tra il medico e il paziente?
«Un rapporto meno subordinato. È giusto rispettare il bagaglio di conoscenze dei medici, ma occorrerebbe anche che gli stessi rinuncino a un atteggiamento che talvolta risulta paternalistico. Ogni paziente ha scelto di mettere la propria vita nelle loro mani: questo non lo si dovrebbe mai dimenticare».
Quanto è importante il supporto psicologico nell’assistenza al malato di cancro?
«Grazie alla psicoterapia ho recuperato la voglia di vivere e ho trovato la forza per affrontare sette mesi di chemioterapia, senza che in nessun momento la depressione abbia ridotto l'efficienza del sistema immunitario. Nel complesso ho imparato a prendermi più cura di me stessa, riducendo così anche i rischi di ricaduta della malattia. Nel mio caso, dunque, ritengo che abbia fatto la differenza. Il supporto psicologico dovrebbe far parte di ogni protocollo di cura ed essere disponibile all’interno della stessa struttura di cura, ma purtroppo non viene sempre garantito».
Fabio Di Todaro
Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).