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Oncologia
Daniele Banfi
pubblicato il 17-01-2022

Glioblastoma: una "navetta" per trasportare la chemio all'interno del tumore



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I liposomi opportunamente modificati riescono, dopo la radioterapia, a superare la barriera ematoencefalica e rilasciare la doxorubicina solo dove serve. Un successo targato Fondazione Veronesi grazie allo studio di Lorena Passoni

Glioblastoma: una "navetta" per trasportare la chemio all'interno del tumore

Un vecchio farmaco chemioterapico "incapsulato" nei liposomi opportunamente modificati per esprimere sulla superficie la proteina modificata Apo-E riesce, dopo l'irraggiamento del tumore con la radioterapia, ad arrivare al glioblastoma con molta più efficienza delle terapie oggi disponibili. E' questo, in estrema sintesi, il messaggio che emerge da un recente studio pubblicato dalla rivista Neuro-Oncology Advances ad opera del team di ricerca guidato dalla dottoressa Lorena Passoni, ricercatrice dell'Istituto Clinico Humanitas e supervisiore scientifico della Fondazione Veronesi. Un risultato importante che dimostra il razionale scientifico sull'utilizzo di questa nuova strategia e che pone le basi per future sperimentazioni volte a portare in clinica questo nuovo approccio terapeutico.

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Il glioblastoma, noto anche come glioblastoma multiforme o astrocitoma di grado IV, è una forma molto aggressiva di tumore che colpisce il sistema nervoso centrale. Si tratta di un tumore che insorge più frequentemente in età matura tra i 45 e i 75 anni ma può presentarsi a qualsiasi età, inclusa l'infanzia. La principale strategia di cura, come per la maggior parte dei tumori cerebrali, è la chirurgia. E' solo attraverso di essa che si procede, dove possibile, alla rimozione della maggior parte del tessuto tumorale. Successivamente nella maggior parte dei casi si procede con la somministrazione della radioterapia e della chemioterapia. Una strategia non sempre soddisfacente.

AGGIRARE LA BARRIERA EMATOENCEFALICA

«Uno dei principali fallimenti della chemioterapia nel glioblastoma -spiega la dottoressa Passoni- è la difficoltà a superare la barriera ematoencefalica. Ciò che arriva al bersaglio non è sufficiente poiché gran parte del farmaco non riesce ad oltrepassare questo "muro"». Ad oggi il chemioterapico maggiormente utilizzato è la temozolomide. Ad esso si associa sempre la radioterapia per migliorare l'azione del farmaco. Ciononostante la quantità di temozolomide che arriva al bersaglio è davvero esigua rispetto a ciò che viene iniettato per via endovenosa. «Non solo, un'altra caratteristica che rende il glioblastoma particolarmente difficile da trattare è la presenza di cellule cancerose ad alto grado di staminalità, con caratteristiche eterogenee -che rendono difficile la scelta del bersaglio- e particolarmente infiltranti. Ecco perché riuscire a veicolare più farmaco là dove serve è di fondamentale importanza per contrastare la crescita del tumore» prosegue la Passoni.

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Per ovviare a questo problema il gruppo di ricerca della dottoressa Passoni ha provato ad utilizzare un approccio alternativo ma molto simile a ciò che avviene tutt'ora. Andando ad indagare le caratteristiche della barriera ematoencefalica, particolarmente ricca di recettori Apo-E, gli scienziati hanno utilizzato un "trasportatore" (mApoE) leggermente differente in grado di legarsi ed oltrepassare la barriera ematoencefalica. Verificato questo legame i ricercatori si sono spinti oltre andando a verificare su un tessuto cerebrale di glioblastoma l'effettivo rilascio del farmaco con e senza trattamento radioterapico. Dalle analisi è emerso che la combinazione di trattamento radioterapico più l'infusione della doxorubicina veicolato con mApoE era in grado di "fare arrivare" molto più farmaco rispetto alla sola infusione senza radioterapia. «Il trattamento radioterapico - conclude Passoni- ha la caratteristica di aumentare la quantità di recettori disponibili a legarsi a mApoE. In questo modo aumenta la permeabilità della barriera ematoencefalica all'ingresso della doxorubicina». Un risultato importante che dimostra come la strategia di combinazione della radioterapia e di mApoE possa migliorare significativamente la "consegna" del farmaco chemioterapico direttamente nel tumore. Prossimo passò sarà la sperimentazione della combinazione in vivo in modello animale.

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Daniele Banfi
Daniele Banfi

Giornalista professionista del Magazine di Fondazione Umberto Veronesi dal 2011. Laureato in Biologia presso l'Università Bicocca di Milano - con specializzazione in Genetica conseguita presso l'Università Diderot di Parigi - ha un master in Comunicazione della Scienza ottenuto presso l'Università La Sapienza di Roma. In questi anni ha seguito i principali congressi mondiali di medicina (ASCO, ESMO, EASL, AASLD, CROI, ESC, ADA, EASD, EHA). Tra le tante tematiche approfondite ha raccontato l’avvento dell’immunoterapia quale nuova modalità per la cura del cancro, la nascita dei nuovi antivirali contro il virus dell’epatite C, la rivoluzione dei trattamenti per l’ictus tramite la chirurgia endovascolare e la nascita delle nuove terapie a lunga durata d’azione per HIV. Dal 2020 ha inoltre contribuito al racconto della pandemia Covid-19 approfondendo in particolare l'iter che ha portato allo sviluppo dei vaccini a mRNA. Collabora con diverse testate nazionali.


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