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Francesca Borsetti
pubblicato il 13-09-2024

Il dialogo tra piastrine e cellule tumorali nei gliomi



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Una classe di lipidi presenti sulla superficie delle piastrine potrebbe giocare un ruolo importante nella progressione dei tumori cerebrali: la ricerca di Fabrizia Noro

Il dialogo tra piastrine e cellule tumorali nei gliomi

Le piastrine sono frammenti cellulari che vengono rilasciati nel flusso sanguigno in presenza di un danno ai tessuti e svolgono un ruolo fondamentale nei processi di coagulazione del sangue. Si attivano in risposta a stimoli precisi ed è noto il loro coinvolgimento anche nella progressione di alcuni tumori. In particolare, le piastrine sono capaci di assorbire sulla loro superficie alcune molecole tumore-specifiche e potrebbero quindi essere usati come “biomarcatori” - molecole di biologiche di rilevanza clinica - per la diagnosi precoce di alcune neoplasie.

Fabrizia Noro è ricercatrice presso IRCCS Neuromed di Pozzilli (Isernia) dove studia il ruolo di una particolare classe di lipidi presenti sulla superficie delle piastrine – i glicosfingolipidi - nell’interazione con le cellule di glioma, uno dei tumori cerebrali più frequenti negli adulti. Il suo progetto sarà sostenuto per il 2024 da una borsa di ricerca di Fondazione Umberto Veronesi.

Fabrizia, ci racconti il tuo progetto di ricerca?

«Il mio progetto si concentra sull'analisi del possibile ruolo dei glicosfingolipidi (un tipo di grassi presenti nelle membrane cellulari umane e animali, N.d.R.) nell'interazione tra cellule di glioma e piastrine, durante la progressione del tumore. I gliomi sono i tumori cerebrali primari più comuni negli adulti, e il glioblastoma rappresenta la forma più aggressiva. Le piastrine, fondamentali nei processi di coagulazione del sangue, sono anche coinvolte nella progressione di alcuni tumori. Sebbene il loro impatto nei tumori non sia ancora completamente chiaro, le piastrine possono assorbire molecole specifiche dei tumori sulla loro membrana, rendendole potenziali biomarcatori per la diagnosi precoce di certi tipi di cancro».

Qual è il legame con i glicosfingolipidi?

«I glicosfingolipidi sono molecole che partecipano all'interazione cellulare e sono stati associati sia alla progressione dei tumori, sia all'attivazione delle piastrine. L'obiettivo di questo progetto è valutare se l'interazione tra le piastrine e le cellule del glioma possa influenzare la crescita del tumore attraverso un meccanismo mediato proprio dai glicosfingolipidi».

In che modo porterete avanti il lavoro quest’anno?

«Utilizzeremo i glicosfingolipidi presenti nelle piastrine, sia come potenziali indicatori del glioma, sia come fattori che favoriscono la crescita del tumore. In seguito, cercheremo di “modificare” i loro profili molecolari per ridurre l'attività delle piastrine, con l'obiettivo di controllare, auspicabilmente, la crescita dei gliomi».

Quali sono le prospettive biomediche della tua ricerca?

«Questo progetto può aprire la strada allo sviluppo di terapie più precise ed efficaci, perché può aiutare a identificare nuovi protagonisti nei processi molecolari che influenzano la progressione del glioma. Studiare la comunicazione bi-direzionale tra tumori e piastrine potrebbe risultare promettente per migliorare la sensibilità del tumore alla terapia e contrastare l'aggressività del glioblastoma».

Sei mai stata all’estero per un’esperienza di ricerca?

«Sì, grazie a un finanziamento specifico ricevuto da Fondazione Umberto Veronesi (Travel Grant) nel 2020 ho avuto la possibilità di lavorare per sei mesi nel Centro di Biologia Molecolare e Vascolare nel Dipartimento di Scienze Cardiovascolari dell’Università di Lovanio in Belgio».

Cosa ti ha lasciato questa esperienza?

«Ho potuto lavorare in un ambiente internazionale molto stimolante e confrontarmi con ricercatori esperti nel campo e provenienti da diversi Paesi. Ho avuto l'occasione di partecipare a incontri sia con il gruppo della professoressa Freson, sia con altri gruppi del Centro e di utilizzare macchinari e tecnologie all’avanguardia. Ho inoltre scoperto una splendida città nel cuore delle Fiandre, sito del patrimonio UNESCO Groot Begijnhof e sede dell’Università Cattolica più antica del mondo».

Ricordi l’episodio o il momento in cui hai capito che la tua strada era quella della scienza?

«Sono cresciuta in un ambiente scientifico: mio padre era un medico e mia madre una psicologa. Anche se i miei genitori non hanno mai esercitato pressioni su di me, credo che questa atmosfera abbia influenzato il mio interesse fin dall'infanzia. Nonostante abbia frequentato un liceo classico, le materie scientifiche mi hanno sempre affascinato di più. Dopo il liceo, ho seguito immediatamente questa passione, scegliendo di dedicare la mia vita alla ricerca scientifica. Ho incontrato innumerevoli difficoltà in questo cammino, ma ho sempre mantenuto saldo questo obiettivo e ho cercato costantemente di progredire. Finora è andata bene. Speriamo possa continuare».

C’è un momento della tua vita professionale che vorresti incorniciare e uno invece che vorresti dimenticare?

«I momenti da incorniciare sono sicuramente quelli del raggiungimento dei traguardi importanti come il giorno della laurea e della discussione della tesi di dottorato: dopo tanto sforzo, ho raggiunto qualcosa di importante. Nel percorso ovviamente si incontrano molti ostacoli: prima di laurearmi alla magistrale, per esempio, ho cambiato laboratorio e progetto di tesi a causa di incomprensioni con i colleghi. Molte volte ho pensato di voler dimenticare quell’esperienza. In realtà, credo che se non l’avessi vissuta non sarei quella che sono oggi. Buone o cattive, le esperienze ti fanno crescere».

Dove ti vedi fra dieci anni?

«Mi auguro di essere sempre dietro al bancone del mio laboratorio, insieme a bel gruppetto di giovani, tutti determinati a perseguire una scoperta scientifica significativa che possa contribuire al miglioramento della salute umana».

Cosa ti piace di più della ricerca?

«Trovarsi ogni giorno a stupirsi della bellezza dei meccanismi biologici».

E cosa invece eviteresti volentieri?

«Il precariato e la burocrazia eccessiva».

C’è una figura che ti ha ispirato nella tua vita personale o professionale?

«I miei genitori».

Qual è il messaggio più importante che ti hanno lasciato?

«Di seguire le proprie passioni».

Cosa avresti fatto se non avessi fatto la ricercatrice?

«Il medico».

Al di là dei contenuti scientifici, qual è per te il senso profondo che ti spinge a fare ricerca?

«La sua capacità di condurci verso scoperte inaspettate, svelando meccanismi che probabilmente non avremmo mai immaginato e di cui ci si continua a stupire ogni giorno. Ma l’uso più nobile è nell'applicare queste scoperte per migliorare le condizioni di coloro che soffrono».

In cosa, secondo te, possono migliorare la scienza e la comunità scientifica?

«Credo che bisognerebbe cercare di dare più spazio e possibilità ai giovani di portare nuove idee e contributi nei vari campi della scienza. Purtroppo questa è una sfida importante da affrontare oggi, soprattutto in Italia, un Paese che non sembra puntare sul progresso scientifico per migliorare il suo presente e il suo futuro. Anche una più profonda integrazione tra i vari campi scientifici può aumentarne il progresso. Un altro approccio importante sarebbe favorire una maggiore integrazione tra la ricerca di base e quella clinica. Questo consentirebbe di trasformare i risultati della ricerca di base in nuove applicazioni cliniche e viceversa, utilizzando i dati raccolti dalla clinica per migliorare il processo di ricerca. Puntare sulla ricerca permetterà di spingere sempre di più verso una medicina personalizzata, o meglio verso una “salute personalizzata”, che metta al centro la persona e non le malattie».

Percepisci fiducia intorno alla figura del ricercatore?

«Purtroppo non percepisco fiducia intorno alla figura del ricercatore, perché in Italia non è facile fare scienza: ci sono poche possibilità e pochi investimenti da parte dello Stato. Per la maggior parte dei giovani non resta che emigrare o cambiare lavoro. Di conseguenza, la carriera di ricercatore appare precaria e poco allettante, sia per chi già la intraprende, sia per i giovani che vorrebbero farlo ma si scoraggiano dalla situazione attuale. Un miglioramento della divulgazione scientifica potrebbe inoltre favorire un maggiore contatto tra la comunità scientifica e il pubblico, consentendo a quest'ultimo di comprendere meglio l'importanza delle nuove scoperte scientifiche e contrastando il sentimento antiscientifico diffuso nel paese».

Cosa fai nel tempo libero?

«Ho sempre avuto molti interessi in diversi ambiti: teatro, danza, musica. Ho imparato a suonare il pianoforte e l’ukulele. Ho fatto, per anni, volontariato con l’ U.N.I.T.A.L.S.I, attività che però ho cessato quando mi sono spostata per lavoro».

Hai famiglia?

«Sì».

Se un giorno tuo figlio o tua figlia ti dicesse di voler fare ricerca, come reagiresti?

«Direi di seguire la sua passione, così come hanno insegnato a me. Il lavoro del ricercatore è il più affascinante che possa esistere, ma bisogna considerare che, al momento, non è di certo il più remunerativo e stabile in Italia. Probabilmente gli o le consiglierei di emigrare».

C’è una cosa che vorresti assolutamente fare almeno una volta nella vita?

«Vorrei vedere l’aurora boreale».

Qual è la cosa di cui hai più paura e perché?

«Di non avere la forza di andare avanti».

E quella ti fa più arrabbiare?

«La prepotenza».

Sei soddisfatta della tua vita?

«Abbastanza».

Qual è il libro che più ti piace o ti rappresenta?

«Siddharta di Hermann Hesse».

Una “pazzia” che hai fatto?

«Il bagno nella fontana di Piazza del Popolo a Roma».

Cosa vorresti dire alle persone che scelgono di donare a sostegno della ricerca scientifica?

«Grazie per questo importante contributo che date al progresso scientifico: è uno dei gesti più importanti che si possa fare per se stessi e il mondo».

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