Il glioblastoma quando recidiva è una delle forme tumorali più resistenti ai trattamenti. Un farmaco già in commercio potrebbe però fermare questa trasformazione. I risultati pubblicati su Cancer Cell
La scarsa risposta alle terapie nelle persone con glioblastoma è dovuta alla capacità del tumore di nascondersi e assumere le sembianze di cellule cerebrali perfettamente sane. Analizzando in maniera dettagliata il meccanismo con cui ciò avviene, uno studio pubblicato sulle pagine della rivista Cancer Cell -realizzato negli Stati Uniti presso l'University of Miami Miller School of Medicined dal gruppo di ricerca dell'italiano Antonio Iavarone- ha individuato un possibile bersaglio da sfruttare per bloccare questo meccanismo sfruttando un farmaco antitumorale già in commercio. I primi risultati, ottenuti in modello animale, apriranno ora alla sperimentazione clinica nelle persone con glioblastoma.
PERCHÈ IL GLIOBLASTOMA È DIFFICILE DA CURARE?
Il glioblastoma, appartenente ai tumori della famiglia dei gliomi, è la neoplasia a carico del cervello più difficile da curare. Si tratta di una malattia che colpisce prevalentemente le persone dopo i 50 anni. Purtroppo, nonostante le terapie, solo il 25% dei pazienti è vivo ad un anno dalla diagnosi e circa il 5% a 5 anni. Ciò accade perché il glioblastoma, anche quando operato in tempo, presenta tassi di recidiva molto elevati. Non solo, quando il tumore si ripresenta è spesso resistente alle terapie. Una delle caratteristiche che rende questo tumore particolarmente difficile da curare, specialmente nella recidiva, è la sua capacità di assumere caratteristiche simili ai neuroni. Una peculiarità che rende il glioblastoma difficile da trattare anche con i più moderni farmaci immunoterapici.
LE TERAPIE ATTUALI
Attualmente il glioblastoma può essere affrontato con un triplice approccio: chirurgia per rimuovere il tumore, chemioterapia con temozolomide e radioterapia. Ultimamente alcuni studi hanno dimostrato, in un sottogruppo di tumori, l'efficacia seppur parziale dell'immunoterapia. Strategie di cura che comunque non hanno mai migliorato sensibilmente il dato della sopravvivenza alla malattia.
LO STUDIO
Nello studio da poco pubblicato, realizzato dalla dottoressa Simona Migliozzi, gli scienziati hanno provato ad analizzare i meccanismi che le cellule di glioblastoma mettono in atto per somigliare ai neuroni e sfuggire all'effetto delle terapie. Per farlo hanno adottato un metodo unico: anziché analizzare il Dna tumorale gli autori hanno confrontato il proteoma -ovvero l'espressione di tutte le proteine della cellula e loro relative modificazioni- di 123 campioni tumorali di glioblastoma con il proteoma di un tessuto sano. Dalle analisi gli scienziati hanno scoperto che c'è una grossa differenza nell'espressione delle proteine tra il glioblastoma primario e le cellule di glioblastoma in recidiva e resistenti ai farmaci. Ed è proprio dentro questa differenza che c'è la chiave per cercare di evitare che il tumore diventi resistente.
Gli scienziati, analizzando il proteoma, hanno riscontrato che alcune proteine -le chinasi- sono particolarmente attive nelle cellule resistenti. Una su tutte è BRAF, mutata in molti tumori ma non nel glioblastoma. Eppure, nonostante il gene BRAF sia perfettamente funzionante, nel glioblastoma la proteina che ne deriva risulta particolarmente attiva. Fortunatamente da anni sono disponibili diversi farmaci efficaci capaci di colpire BRAF. Partendo da questa costatazione gli autori hanno provato a somministrare il farmaco vemurafenib (usato già, ad esempio, nei melanomi BRAF mutati) sia su cellule di glioblastoma simili ai neuroni sia in modello animale. Dalle analisi vemurafenib è stato in grado, in associazione alla chemioterapia, di inibire la crescita tumorale. Nel modello animale questo approccio ha inoltre esteso la sopravvivenza rispetto alla sola chemioterapia.
NUOVE SPERIMENTAZIONI ALL'ORIZZONTE?
Quanto ottenuto rappresenta una prima assoluta per il glioblastoma. Non a caso il professor Iavarone è al lavoro nel tentativo di "disegnare" uno studio clinico nelle persone con glioblastoma con l'obiettivo di testare la combinazione di chemioterapia con un BRAF inibitore come vemurafenib. L'idea del team dello scienziato italiano è quella di iniziare a somministrare sin da subito l'inibitore proprio per evitare la trasformazione del glioblastoma primario in glioblastoma resistente. Ma c'è di più: quanto osservato indica chiaramente la possibilità di sfruttare sempre di più l'analisi del proteoma nella scelta delle terapie anticancro. Nel caso specifico, fermandosi solo all'analisi del Dna tumorale, non sarebbe stata possibile la somministrazione del farmaco in questione.
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Daniele Banfi
Giornalista professionista del Magazine di Fondazione Umberto Veronesi dal 2011. Laureato in Biologia presso l'Università Bicocca di Milano - con specializzazione in Genetica conseguita presso l'Università Diderot di Parigi - ha un master in Comunicazione della Scienza ottenuto presso l'Università La Sapienza di Roma. In questi anni ha seguito i principali congressi mondiali di medicina (ASCO, ESMO, EASL, AASLD, CROI, ESC, ADA, EASD, EHA). Tra le tante tematiche approfondite ha raccontato l’avvento dell’immunoterapia quale nuova modalità per la cura del cancro, la nascita dei nuovi antivirali contro il virus dell’epatite C, la rivoluzione dei trattamenti per l’ictus tramite la chirurgia endovascolare e la nascita delle nuove terapie a lunga durata d’azione per HIV. Dal 2020 ha inoltre contribuito al racconto della pandemia Covid-19 approfondendo in particolare l'iter che ha portato allo sviluppo dei vaccini a mRNA. Collabora con diverse testate nazionali.